“L’Inps aggiorna i criteri, 3 mesi in più dal 2027 per la pensione”

Lo denuncia la Cgil, servono 67 anni e tre mesi per la vecchiaia

ROMA, 09 gennaio 2025, 18:18

Redazione ANSA

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Dal 2027 serviranno 67 anni e tre mesi di età per la pensione di vecchiaia e 43 anni e un mese di contributi per la pensione anticipata, indipendentemente dall’età: l’Inps, sottolinea la Cgil in una nota con preoccupazione, ha cambiato gli applicativi inserendo i nuovi requisiti pensionistici “senza alcuna comunicazione ufficiale da parte dei ministeri competenti e in totale assenza di trasparenza istituzionale”.

Dal 2029 il requisito contributivo aumenterà ulteriormente a 43 anni e 3 mesi. Nei mesi scorsi il presidente Istat aveva annunciato lo scatto nel 2027 di un aumento di tre mesi per l’accesso alla pensione.

“La Cgil esprime profonda preoccupazione, sottolinea la segretaria confederale Lara Ghiglione – per la recente modifica unilaterale dei requisiti pensionistici operata dall’Inps sui propri applicativi, senza alcuna comunicazione ufficiale da parte dei Ministeri competenti e in totale assenza di trasparenza istituzionale”.

Dalle verifiche effettuate, prosegue Ezio Cigna responsabile delle politiche previdenziali, “risulta che l’Inps abbia aggiornato i criteri di calcolo delle pensioni, introducendo un aumento dei requisiti di accesso.

Dal 2027, per accedere alla pensione anticipata, saranno necessari 43 anni e 1 mese di contributi, mentre dal 2029 il requisito aumenterà ulteriormente a 43 anni e 3 mesi. Anche per la pensione di vecchiaia si registrano incrementi, con l’età minima che passerà a 67 anni e 3 mesi nel 2027 e a 67 anni e 5 mesi nel 2029″, aggiunge Cigna.

Secondo la Cgil queste modifiche, se confermate, non trovano alcun riscontro nei documenti ufficiali attualmente vigenti. L’unico riferimento fin qui valido, per le stime future, erano rappresentate nel 25° Rapporto della Ragioneria Generale dello Stato del 2024, che prevedeva per il 2027 nessun incremento e per il 2029 un aumento di solio1 mese. “A pochi giorni dall’approvazione della Legge di Bilancio, prosegue Ghiglione, ci troviamo di fronte all’ennesimo peggioramento del quadro previdenziale che si aggiunge alle scelte già sbagliate di questo Governo sul tema delle pensioni. Nonostante i continui slogan e le promesse elettorali di una riforma del sistema previdenziale, come il tanto annunciato superamento della legge Monti-Fornero e il pensionamento con 41 anni di contributi per tutti, la realtà dimostra l’opposto: nuove restrizioni e ulteriori sacrifici a carico delle lavoratrici e dei lavoratori”. Il rischio, spiega, “è l’aumento del numero di persone che si troveranno senza tutele, con il rischio di nuovi esodati, come coloro che hanno aderito a piani di isopensione o scivoli di accompagnamento alla pensione. “E inaccettabile – conclude – che decisioni di tale impatto sociale vengano prese senza un chiaro riferimento normativo e senza un’adeguata informazione”.

L’Ucraina capitola,ma la Nato è sorda.Ultimo sfregio a Kiev

La catena di comandodell’Alleanza atlantica pianifica la continuazione dellaguerra assegnando ai vari Paesi membri i compiti efissando quante e quali risorse ognuno di essi devededicare alla difesaCon l’intervista al quotidiano Le Parisien, il presidente Zelensky ha dichiarato la capitolazionemilitare dell’Ucraina. Nel nostro piccolo, l’avevamo annunciata tre anni fa, durante l’invasione,senza palla di vetro ma con un filo di ragionamento. Sarebbe bastato quello a evitareall’Ucraina mezzo milione di soldati eliminati e 10 milioni di cittadini scappati all’estero. Lamedia di 14 mila soldati e 280 mila cittadini perduti, al mese, per anni. Ed è questo dato nudoe crudo che oggi dovrebbe far ragionare chi sta decidendo la continuazione a oltranza dellaguerra. Ma in quei giorni Zelensky e chi lo appoggiava dandogli armi e idee fantasiose edisastrose, ma comunque criminali, non volevano ragionare. Per questo siamo stati imbottiti distupidaggini a tutti i livelli, mentre si tenevano opportunamente nascoste tutte le vulnerabilitàdi una nazione approntata e addestrata per la guerra nei venti anni precedenti, una guerraimpari contro i suoi stessi cittadini. Una guerra militare e paramilitare, di polizia e bandearmate contro i cittadini autonomisti e una guerra civile contro tutti i russofoni, ma anche iromeni, gli ungheresi e i carpatici: vale a dire buona parte dei cittadini ucraini e la quasitotalità di quelli del Donbas e della Crimea.Nel 2004 gli estremisti neo nazisti ucraini aiutati dagli americani avevano preso il potere conuna percentuale irrisoria di voti elettorali. Allora iniziarono i pogrom antirussi e i capi di Statococcolati dagli occidentali dicevano: “Noi avremo case e lavoro, loro no; i nostri figli andrannoa scuola, i loro no e resteranno a marcire nelle cantine come topi”. Questo è stato ilprogramma dei vari governanti sostenuti dai neonazisti. Oggi quei personaggi non sonoscomparsi e nessuno di loro ha versato una goccia di sudore in guerra. Ancora oggi dicono efanno le stesse cose. Nel frattempo la catena di comando della Nato sta già pianificando lacontinuazione della guerra assegnando ai Paesi membri i compiti da svolgere e fissando quantee quali risorse ognuno di essi deve dedicare alla difesa propria e a quella collettiva. Difesa che,ovviamente, visto che il nemico è chiaro può anche prevedere l’attacco preventivo.Questo ha capito dal concetto strategico varato dai governi alleati a Madrid nel 2022 e detto ilComandante supremo della Nato, il generale Cavoli, al Council on Foreign Relations. E fa il suomestiere. “Prima del 2022 ho passato cinque anni come Comandante delle forze terrestriamericane in Europa ad addestrare gli ucraini e a rifornirli di armi. Dal 2022 con la nomina aComandante supremo della Nato ho ripreso alla mano i piani di guerra che erano statiabbandonati nel 1989 e sono orgoglioso di annunciare che non immaginavo tanta coesione evoglia di combattere da parte dei Paesi Nato”.Da parte sua il Segretario generale della Nato, l’olandese Mark Rutte, e il compatriotaammiraglio Bauer, chairman del Comitato Militare stanno facendo la spola tra gli alleati perconfermare gli aiuti all’Ucraina anche senza gli americani. Il francese Macron sta contrattandocon Zelensky l’invio di truppe e tutti, dalla Gran Bretagna alla Polonia, meno russi e ucraini,stanno vedendo come sfasciare l’Europa e spartirsi l’Ucraina.Per adesso, la capitolazione militare annunciata da Zelensky non è condivisa dagli “amici”europei e atlantici che hanno puntato tutto sulla vittoria militare ucraina.La Nato ha già assunto il compito di gestione degli aiuti militari (una semplice formalità epartita di giro visto che i vertici della Nato sono gli stessi americani) e ora sta puntandosull’invio di 300 mila soldati in Ucraina, il minimo indispensabile per sei mesi di guerra ma chepuò prosciugare i bilanci nazionali per i prossimi tre anni.È evidente che Zelensky ha voluto saggiare il terreno e, in previsione di un prossimodisimpegno americano, ha allertato gli europei e la Nato sulla fine del sacrificio ucraino per “lasicurezza europea e del mondo”. Zelensky si è però premurato anche di chiedere all’Occidentedi esercitare tutta la sua capacità diplomatica per convincere la Russia a negoziare. In praticaha capito che dopo la capitolazione militare non può affrontare la capitolazione politica. E suquesto terreno si trova avvantaggiato almeno a giudicare dagli sbaciucchiamenti che riceve datutti i leader europei e dai funzionari dell’Unione o della Nato.In realtà la cosa è complicata: in questi ultimi tre anni, tutta la compagine euro-atlantica hadimostrato di non avere né voglia né capacità di negoziare alcunché. L’Ucraina ha messo periscritto questa posizione intransigente. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e tutti gli altri l’hannosostenuta a meno di un paio di governanti reietti che presto verranno anche sanzionati.Inoltre, alla volontà collettiva occorre aggiungere la capacità individuale. Siamo arrivati aquesta situazione disastrosa grazie al fattivo apporto di individui mediocri, dilettanti allosbaraglio e personalità di rango ma con interessi diversi dalla sicurezza europea. Se la politicae la diplomazia internazionale devono avvalersi di tali “negoziatori” per sostenere la causaucraina come hanno fatto nei Balcani, in Iraq, Libia, Afghanistan, Siria e Israele possiamo soloimmaginare il peggio.C’è poi il fatto ovvio delle intenzioni russe: quanto e cosa sarà disposto a negoziare ilCremlino? Lo stesso appello alla diplomazia per salvare la politica dell’Ucraina e ottenere atavolino ciò che ha perso e può ancora perdere sul campo è un segnale di debolezza.L’impegno di Rutte a buttare uomini e armi della Nato “fino a quando l’Ucraina non sarà ingrado di prevalere nei negoziati” è l’anticipazione di un altro disastro militare e politico.Dal punto di vista militare, in Ucraina la Russia ha agito in maniera quasi reticente, come senon volesse la vittoria militare sul campo: non ha mobilitato tutte le proprie forze, ha cedutospazio in fretta per poi riprenderlo con calma, non ha colpito i centri nevralgici del Paese, nonha reagito in maniera scomposta alle provocazioni e agli attacchi. Ha impiegato la metà delleforze americane e alleate inviate in Iraq e in Afghanistan contro Stati bolliti e falliti. Sel’Ucraina fosse stata ai confini statunitensi e avesse minacciato gli interessi americani sarebbestata smantellata in tre settimane. La Russia aveva la stessa capacità e non l’ha fatto.È evidente che ha sempre voluto e perseguito la vittoria politica, tuttavia, oggi, come il primogiorno di guerra, essa si basa su tre condizioni fondamentali: 1. Accordo sulla sicurezzaeuropea, che significa accordo sullo status delle aree occupate, ripristino degli scambi e degliaccordi sul controllo degli armamenti, 2. Denazificazione dell’Ucraina, che significarovesciamento dell’attuale impianto politico ucraino, 3. Neutralizzazione della minaccia militaredella Nato contro la Russia, o quantomeno neutralità ucraina garantita dall’impegno reciprocodi non aggressione tra Stati Uniti, Nato, Unione europea e Russia. E non è tutto. Solo persedersi al tavolo di un negoziato occorre essere disposti a riconoscere le proprie responsabilità.Portare la Russia al tavolo negoziale può essere un’impresa politicamente, storicamente eumanamente salutare per tutto il mondo. Si assisterebbe allo scambio di garbate accuse tipicodella diplomazia, ma si sentirebbero anche le campane diverse dalla propaganda o dalledichiarazioni e dai mandati di cattura unilaterali ai quali ci hanno abituato l’Ue, la Nato el’Ucraina. Un negoziato tra parti non ancora individuate come vincitrici e vinte, come quello chevorrebbe Zelensky, comporta la spiegazione dei fatti. Si dovrebbe ammettere ciò che haportato alla guerra, cosa è avvenuto a Bucha, a Mariupol, a Kherson, a Kursk, alle dighe, aiponti saltati, alle fosse comuni e all’uso di armi illegali. Ai processi, prima delle condanne, siesibirebbero le prove e sentirebbero i testimoni. Sempre ammesso che ci arrivino vivi.Da: https://www.ilfattoquotidiano.itFabio Mini è un militare e saggista italiano, già comandante NATO della missione KFOR in Kosovo dal 2002 al
2003.

la lotta dei lavoratori della logistica

Nonostante queste mobilitazioni, una parte dei lavoratori, tutti facchini, consigliati da rivoluzionari da strapazzo, ha sperato che il passaggio ad un altro sindacato potesse garantire l’annullamento dei licenziamenti ed un rapido
reintegro in GLS Napoli. Non ce ne meravigliamo e comprendiamo lo stato d’animo di questi lavoratori alla loro prima esperienza di lotta.
Ci è, invece, del tutto incomprensibile l’agire del sindacato di base scelto dai facchini, il Si Cobas. A differenza di altre realtà sindacali che hanno ufficialmente espresso solidarietà a questi lavoratori e disponibilità ad azioni
comuni (su tutti USB, ma anche CUB, Cobas, SGB, questi in occasione dello sciopero del 29 nov), il Si Cobas ha spiccato per il suo totale silenzio e la totale assenza nelle mobilitazioni di questi mesi, persino di fronte ai licenziamenti. Solo oggi, dopo il tesseramento dei facchini, il Si Cobas scopre l’importanza di questa vertenza e la gravità dell’attacco padronale. E pur dovendo constatare, nei suoi comunicati, che i licenziamenti sono la punizione padronale per chi ha osato alzare la testa e scioperare, si guarda bene dal fare riferimento alle lotte che sono alla base di questa offensiva e a chi le ha organizzate; così come si fa finta di ignorare le mobilitazioni messe in campo dai corrieri e dal Sol Cobas per il reintegro di tutti i lavoratori. Di fatto è una pericolosa presa di distanza che
sottolinea una frattura del fronte dei lavoratori che, mentre non rafforza la battaglia per il reintegro dei licenziati, va a tutto vantaggio della multinazionale GLS, della TEMI di Tavassi e dei padroncini che, c’è da giurarci, non vedono l’ora di sfruttare queste contraddizioni pur di impedire che il processo di riorganizzazione dei lavoratori si radichi e si estenda e continuare così a fare il bello ed il cattivo tempo sulla pelle dei loro dipendenti.
Evidentemente questi compagni intendono il “Toccano uno toccano tutti” come “Toccano un nostro tesserato toccano tutti i nostri tesserati”. Prevale, cioè, ancora una volta, lo spirito di appartenenza e la logica di bottega, al
di là dei continui richiami alla necessità dell’unità di classe e di una risposta unitaria alle misure antiproletarie ed antisindacali di governo e padroni.
Vorremmo sbagliarci, ma in ogni caso si tratta di una evidente sottovalutazione del significato dello scontro di classe in atto sui nostri territori. Uno scontro che laddove vedesse prevalere l’offensiva padronale comporterebbe effetti a catena anche in altre realtà lavorative della logistica dove pure il Si Cobas èattualmente impegnato. Per quanto ci riguarda continueremo a far sentire la nostra vicinanza ai facchini in lotta, così come abbiamo fatto
durante il blocco da parte del Si Cobas del magazzino di Gianturco dove, oltre a far sentire la loro solidarietà, i corrieri iscritti al Sol Cobas si sono rifiutati di uscire per le consegne. Come Sol Cobas, continueremo a rivendicare il reintegro di tutti i licenziati a prescindere dalla tessera sindacale. Lo abbiamo fatto in ogni iniziativa e portato su ogni tavolo di trattativa tenuto sia con la controparte datoriale che con le istituzioni (Prefettura e Regione Campania nella persona dell’Assessore al lavoro Antonio Marchiello). Lo abbiamo ribadito con forza anche nell’incontro tenutosi mercoledì 18 dicembre al Ministero del lavoro dove abbiamo posto la necessità della convocazione urgente di un tavolo interistituzionale (Governo, Regione e Prefettura, oltre che la TEMI e la GLS) per il reintegro dei lavoratori licenziati ma anche per avere garanzia del
mantenimento dei livelli occupazionali attualmente attivi all’interno di GLS-TEMI. Qui, infatti, si profilano cambiamenti organizzativi e strutturali che possono mettere a rischio posti di lavoro su tutto il territorio nazionale.
A nessuno dovrebbe sfuggire la rilevanza dello scontro in atto per la vita di questi lavoratori e per il futuro dei rapporti tra capitale e lavoro in Campania e per tutto il Meridione. Se la lotta degli operai della logistica riuscirà a respingere le provocazioni padronali può trasformarsi in uno stimolo ed incoraggiamento per i tanti lavoratori sottoposti a trattamenti salariali e normativi anche peggiori e che non trovano la forza per organizzarsi e lottare a loro volta per la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro.
Per questo auspichiamo una ricomposizione del fronte sindacale che porti a forme più avanzate di coordinamento e di impegno comune contro un medesimo avversario e che il reintegro di tutti i licenziati, diventi l’obiettivo da
raggiungere senza mediazioni di sorta, respingendo proposte di rottamazione della combattività operaia attraverso buone uscite e ipotesi di trasferimenti e ricollocazione in altri appalti. I tavoli che si terranno la settimana prossima in Prefettura con la controparte padronale, ci auguriamo non solo che trovino sulla stessa linea le sigle del sindacalismo di base coinvolte, ma siano l’inizio di un percorso unitario e fraterno di lotta fino alla realizzazione completa di questo obiettivo.
Napoli 21/12/2024 Lavoratrici e lavoratori Sol Cobas Campania

Gli stipendi in Italia si trovano in una stasi, registrando un incremento del solo 1% negli ultimi 30 anni, dal 1991 al 2022, in netto contrasto con la media del 32,5% nell’area Ocse. Questo dato indica un fallimento della contrattazione collettiva.

I problemi del mercato del lavoro
Dopo lo stop causato dalla pandemia, il mercato del lavoro ha ripreso a crescere, tuttavia il percorso intrapreso è caratterizzato da numerosi ostacoli dovuti a criticità strutturali persistenti fino ad oggi. Tra questi fattori problematici si evidenziano:
Bassi salari, i livelli retributivi sono rimasti contenuti, rappresentando un elemento critico per il mercato del lavoro.
Scarsa produttività, la mancanza di un adeguato aumento della produttività contribuisce a ostacolare la crescita sostenibile del mercato del lavoro.
Poca formazione, la carenza di opportunità formative limita le competenze della forza lavoro, influenzando negativamente la sua adattabilità e produttività.
Welfare inadeguato, il sistema di protezione sociale non è in grado di fornire una copertura adeguata a tutti i lavoratori. In particolare, i 4 milioni di lavoratori non standard e gli autonomi si trovano senza un supporto sicuro.
Il mercato del lavoro è ancora fortemente influenzato dal fenomeno noto come “labour shortage”, con molte imprese che faticano a occupare le posizioni vacanti. La discrepanza tra domanda e offerta si sta ampliando, creando ulteriori sfide.
Questi temi sono affrontati nel rapporto Inapp 2023, che dedica parte della sua analisi anche alla stagnazione degli stipendi, persistente per troppo tempo.
In Italia stipendi fermi da tre decenni
Indubbiamente, uno dei principali nodi critici del mercato del lavoro riguarda la stagnazione degli stipendi, rimasti pressoché immutati nel corso di tre decenni. Nel periodo compreso tra il 1991 e il 2022, i salari reali hanno registrato una crescita appena del 1%, a fronte del 32,5% degli altri paesi dell’area Ocse.
Un’analisi più dettagliata, concentrando l’attenzione sul solo anno 2020, il terzo anno della pandemia da Covid-19, rivela una contrazione reale degli stipendi del 4,8%. Inoltre, nel corso dello stesso anno, si è verificata la più ampia differenza rispetto alla crescita dell’area Ocse, con un -33,6%.

Oltre alla questione degli stipendi, un ulteriore problema identificato riguarda la scarsa produttività. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, la crescita della produttività in Italia è rimasta inferiore rispetto agli altri paesi del G7.
Nel corso del 2021, il divario ha raggiunto il suo apice, attestandosi al 25,5%. Questi elementi contribuiscono a delineare un quadro complessivo in cui il mercato del lavoro italiano affronta sfide significative legate alla retribuzione e alla produttività.
Le dichiarazioni del presidente dell’Inapp
Il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda, ha sottolineato che la questione salariale è stata perfino aggravata nell’ultimo triennio dall’incidere dell’inflazione. I salari reali sono addirittura calati rispetto al 2020, a fronte di incrementi sostanziali negli altri Paesi. Secondo Fadda potrebbe essere “utile in questo contesto l’introduzione del salario minimo legale”.

E’ nato il Coordinamento No NATO!

Riproduciamo di seguito il comunicato ufficiale del Coordinamento Nazionale No NATO, elaborato nei giorni successivi all’assemblea di Bologna

13 dicembre 2024

Coordinamento Nazionale No NATO

Logo del Coordinamento Nazionale No NATO e una foto dell'assemblea costitutiva tenutasi nella Sala Consiliare del Quartiere Porto, Bologna, l'8/12/2024

L’assemblea di fondazione del Coordinamento Nazionale No NATO che si è svolta a Bologna domenica 8 dicembre è stato un successo! Le decine di organismi che hanno partecipato e sono intervenuti all’assemblea, i cento partecipanti in presenza e i circa 25 in collegamento hanno dimostrato la necessità di promuovere in Italia un coordinamento degli organismi che lottano contro la NATO. L’Italia infatti è un Paese occupato ed ogni giorno i lavoratori italiani ne pagano le conseguenze. Dalle oltre 120 basi e installazioni militari USA-NATO disseminate su tutto il territorio nazionale agli accordi tra le università italiane e le agenzie ed aziende militari pubbliche e private degli USA e dello Stato sionista d’Israele, dai percorsi didattici per i giovani studenti all’interno delle caserme all’uso del nostro territorio per l’addestramento degli eserciti dell’Alleanza Atlantica, il nostro Paese è un retroterra strategico della NATO, principale promotrice della Terza Guerra Mondiale in cui il nostro Paese è trascinato ogni giorno di più.

A riprova del ruolo deleterio della NATO non c’è solo la guerra in Ucraina e la complicità con lo Stato sionista d’Israele nel genocidio del popolo palestinese, ma vediamo le recenti operazioni a sostegno delle organizzazioni terroristiche in Siria, i tentativi di ostacolare gli esiti elettorali in quei Paesi che tramite il voto esprimono preferenze in contrasto con gli obiettivi e interessi degli USA e della NATO (Romania, Georgia), la guerra ibrida contro il Venezuela e tutti quei Paesi che non intendono assoggettarsi al blocco imperialista.

L’ampia partecipazione all’assemblea ha dimostrato inoltre che l’opposizione alla NATO è diffusa in ogni parte del Paese. Ogni regione, provincia e città è animata da gruppi, partiti, movimenti, organismi sindacali, associazioni che fanno della lotta contro il bellicismo euro-atlantico una propria bandiera e che sono nei fatti focolaio di resistenza locale. Dalla Lombardia alla Sicilia, dalla Sardegna al Friuli-Venezia Giulia, dall’Emilia-Romagna alla Campania, intento del Coordinamento Nazionale No NATO è quello di tenere insieme le realtà attive e volenterose di lottare contro la NATO, valorizzarne le peculiarità, convogliarle in iniziative e mobilitazioni il più possibile unitarie per dare forza e vigore alle parole d’ordine del No alla NATO, No alle politiche di guerra e No alla propaganda di guerra!

Dal dibattito infatti è emersa la necessità di valorizzare ogni esperienza territoriale di lotta contro la NATO per alimentare un più vasto e generale movimento di lotta che si ponga l’obiettivo, attraverso iniziative, campagne, battaglie specifiche – alcune delle quali proposte all’interno dell’assemblea – di sviluppare la lotta più generale per l’uscita dell’Italia dalla NATO, per la cacciata della NATO dall’Italia. Tra le varie iniziative in programma in questo inverno, sicuramente spicca il campeggio invernale del Movimento No MUOS, dal 29 dicembre 2024 al 3 gennaio 2025 che il Coordinamento sostiene ed a cui invita a partecipare numerosi.

Nei prossimi giorni faremo circolare una sintesi estesa delle oltre quattro ore di interventi tenuti all’assemblea, che dimostrano la ricchezza di idee ed esperienze degli organismi popolari e di lavoratori che nel nostro Paese ogni giorno sono protagonisti della lotta contro la NATO.

Tutti coloro che sono interessati a sostenere il progetto del Coordinamento Nazionale No NATO o anche semplicemente a collaborare con esso, possono scrivere all’indirizzo mail coordinamentonazionalenonato@proton.me.

Avanti nella costruzione del Coordinamento Nazionale No NATO!

Fuori l’Italia dalla NATO, fuori la NATO dall’Italia!

coordinamentonazionalenonato@proton.me.

Pensione anticipata, ti serviranno 5 anni in più per andare in pensione: ecco la nuova proposta completa del CNEL

Previdenza Sociale – 23/08/2024 – AVV. LILLA LAPERUTA

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Vediamo insieme i punti nodali della bozza di riforma del sistema pensionistico

Il Governo ha attribuito al CNEL (Consiglio Nazionale per l’Economia e il Lavoro, presieduto dall’ex ministro Renato Brunetta) un nuovo importante incarico: quello di elaborare una proposta organica di riforma delle pensioni. A tal fine si è insediato, lo scorso 27 febbraio 2024, un gruppo di lavoro composto da 12 membri, scelti fra esperti accademici ed esperti esterni designati da Istat, Inps, Banca D’Italia, nonché da altri organismi individuati di comune accordo con il coordinatore.

La necessità dello studio – sembra utile ricordare – s’inserisce in un contesto di crescente attenzione alla sostenibilità del sistema pensionistico, anche alla luce della procedura per deficit eccessivo avviata dalla Commissione europea.

La Commissione di lavoro è, in particolare, impegnata nell’approfondimento di quattro macroaree del sistema di welfare pensionistico: previdenza obbligatoria, previdenza delle casse professionali, previdenza complementare e regime di contribuzione obbligatoria con i connessi problemi di evasione. L’organo scientifico – ha dichiarato il presidente Renato Brunetta, in apertura della riunione di insediamento – “è chiamato a dare risposte sul futuro del sistema previdenziale, un tema di grande valenza per il Paese. Il gruppo di lavoro ha l’obiettivo di preparare il terreno culturale e scientifico affinché il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro possa svolgere il suo ruolo di stimolo al Governo e al Parlamento e al tempo stesso possa esercitare in modo autonomo la facoltà di iniziativa legislativa“.

L’istruttoria preliminare ha, infatti, evidenziato le criticità di natura giuridica ed economico-finanziaria dell’attuale sistema previdenziale, sebbene ad oggi – come ribadito in un comunicato stampa  – “nessun testo di legge di riforma delle pensioni è stato mai predisposto, né esistono tantomeno documenti ufficiali ascrivibili al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, contrariamente a quanto si legge su alcune testate giornalistiche.

Quindi, allo stato, non è dato ancora conoscere gli approdi conclusivi del “Gruppo di lavoro”.

Tuttavia, da alcune indiscrezioni trapelate,  è emerso che alla base della proposta di riforma maturata dalla Commissione  –  proposta che sarà verosimilmente presentata al Governo entro settembre (in prossimità, dunque della manovra di bilancio per il 2025) – si punta a introdurre un sistema di “flessibilità strutturale” per l’accesso alla pensione anticipata.

Detta flessibilità si concreterebbe nella possibilità di andare in pensione tra i 64 e i 72 anni di età, a patto di rispettare le seguenti condizioni:

> occorre maturare un minimo di 25 anni di contributi versati, in luogo dei 20 anni attualmente richiesti;

> si rende necessario contare su un assegno di almeno 800 euro netti al mese, pari a una volta e mezzo l’assegno sociale;
> bisognerà accettare una penalizzazione: o il ricalcolo contributivo dell’assegno pensionistico, oppure un taglio del 3-3,5% per ogni anno di anticipo rispetto ai requisiti di legge.

Per quanto attiene invece ad altre forme di pensionamento anticipato, l’idea base dovrebbe essere quella di abbandonare il vecchio sistema delle ”quote”, eliminando così le attuali opzioni “quota 103”, “APE Sociale” e “Opzione donna” che consentono, oggi, l’uscita anticipata dal lavoro a partire rispettivamente da 63, 61 e 62 anni, e prevedere al loro posto una nuova griglia di uscite anticipate dai 64 ai 72 anni, privilegiando, o rendendo addirittura obbligatorio, il calcolo della future pensioni su base solo contributiva. 

Attualmente, l’età media di pensionamento anticipato in Italia è di 61,6 anni; questo dato è stato ritenuto troppo basso dagli esperti del CNEL. Obiettivo della riforma, quindi, è quello di allineare il sistema italiano a quello di altri Paesi europei, dove l’accesso alla pensione anticipata è generalmente più stringente.

Lavoratori, superata questa temperatura, anche solo percepita, stop al lavoro (ma non allo stipendio): ecco in quali settori

• Lavoro – 15/07/2024 – AVV. LILLA LAPERUTA

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Vediamo insieme in quali casi è possibile richiedere l’ammortizzatore sociale

L’eccezionale ondata di calore che sta interessando in questi giorni il territorio nazionale impatta significativamente sul regolare svolgimento delle attività lavorative. È riconosciuto dal Ministero della Salute che temperature più elevate per periodi di tempo più lunghi concorrono ad aumentare il rischio di infortuni dovuti ad affaticamento, mancanza di concentrazione, scarsa capacità decisionale e altri fattori.

L’esposizione dei lavoratori ai rischi per la salute e la sicurezza si presenta particolarmente elevata nelle giornate in cui si registra un elevato tasso di umidità, che concorre significativamente a determinare una temperatura “percepita” superiore a quella reale.

Quali i settori di attività coinvolti?

Lo stress da calore è un rischio significativo per i lavoratori che svolgono un intenso lavoro fisico all’aperto, con esposizione diretta alla luce solare e al calore in settori come l’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, l’edilizia, l’estrazione mineraria, i trasporti e la manutenzione e la fornitura di servizi pubblici. L’esposizione diretta alla radiazione solare è suscettibile di compromettere le prestazioni motorio-cognitive e aumentare, quindi, il rischio di lesioni.
Ma anche nei luoghi di lavoro al chiuso, dove non sia possibile coniugare la produzione con un sistema di ventilazione o di areazione condizionato (panificazione industriale, macellazione, cartiere), il rischio di lesioni può aumentare durante le ondate di caldo.

Quali le tutele previste per i lavoratori?

Sono previste dal nostro ordinamento tutele normative ed economiche.

A livello legislativo occorre fare riferimento al Testo unico della sicurezza sul lavoro, di cui D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che fornisce il quadro normativo organico per la protezione dei lavoratori. S’impone ai datori di lavoro di effettuare una valutazione dei rischi sul luogo di lavoro e di stabilire misure preventive per proteggere i lavoratori da qualsiasi rischio sul luogo di lavoro, ivi compreso il rischio da stress termico (cfr. art. 28).

Quanto alle tutele di natura economica, è prevista la possibilità per le aziende, nel caso di temperature elevate registrate dai bollettini meteo o “percepite” in ragione della particolare tipologia di lavorazioni in atto, di richiedere la cassa integrazione guadagni ordinaria (CIGO), indicando la causale “eventi meteo”. Il contributo è erogabile per 13 settimane, prorogabili fino a 52 settimane (12 mesi) o, eccezionalmente e in determinate aree territoriali, fino a 24 mesi.

A tal proposito l’Inps, con il messaggio 20 luglio 2023, n. 2729, ha chiarito che, in caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa in conseguenza delle temperature elevate, il ricorso al trattamento di integrazione salariale con la causale “eventi meteo” è invocabile dal datore di lavoro laddove le suddette temperature risultino superiori a 35 gradi centigradi. Inoltre l’Istituto previdenziale riconosce che anche temperature inferiori a 35 gradi centigradi possono determinare l’accoglimento della domanda di accesso al trattamento ordinario, qualora entri in considerazione la valutazione anche della temperatura “percepita”, che è più elevata di quella reale. Ad esempio, influiscono sulla temperatura percepita attività come quelle di rifacimento di tetti o facciate o di stesura del manto stradale.

Nel messaggio si chiarisce anche che, indipendentemente dalle temperature rilevate, il trattamento di integrazione salariale è riconoscibile comunque in tutti i casi in cui il datore di lavoro, su indicazione del responsabile della sicurezza dell’azienda, disponga la sospensione/riduzione delle attività in quanto sussistono rischi o pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori, purché le cause che hanno determinato detta sospensione/riduzione non siano imputabili al medesimo datore di lavoro o ai lavoratori.

Inoltre, è specificato che, ai fini di una più puntuale valutazione degli elementi a supporto della richiesta di accesso al trattamento di integrazione salariale, non deve farsi riferimento solo al gradiente termico, ma anche ai seguenti ulteriori parametri:
> la tipologia di attività svolta;
> le condizioni nelle quali si trovano a operare i lavoratori;
> le documentazioni o le pubblicazioni su dati relativi agli indici di calore da parte dei vari dipartimenti meteoclimatici o della protezione.

Dipendenti pubblici, lo straordinario va sempre pagato anche senza consenso del datore: ecco la novità dalla Cassazione

• Lavoro – 16/07/2024 – AVV. MARCO DE GREGORIO

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La Suprema Corte riconosce il diritto dei dipendenti pubblici al pagamento per il lavoro straordinario, anche senza autorizzazione formale del datore di lavoro

Il lavoro straordinario deve essere retribuito anche in assenza di autorizzazione. A stabilirlo è una recente ordinanza della Cassazione, la n. 17912/2024.
Gli Ermellini hanno affermato che, sebbene il lavoro aggiuntivo richieda specifiche autorizzazioni e condizioni, nel pubblico impiego lo straordinario deve essere pagato se svolto con il consenso del datore di lavoro, anche in assenza di autorizzazioni formali.

Secondo i giudici, il mancato rispetto delle regole previste in materia di spesa pubblica non deve penalizzare il lavoratore, ma deve ricadere sui funzionari responsabili delle autorizzazioni. L’ordinanza in esame, pertanto, fornisce un principio fondamentale in materia di protezione dei diritti dei dipendenti pubblici, assicurando agli stessi una giusta e adeguata remunerazione per l’attività lavorativa in concreto svolta.

Il caso concreto riguardava un infermiere dell’ospedale di Reggio Calabria, il quale aveva svolto prestazioni aggiuntive nell’erogazione del servizio di dialisi per il periodo estivo del 2013. Ebbene, la Corte di Cassazione ha dato ragione all’infermiere, nell’ambito della controversia sorta proprio in merito al pagamento delle ore straordinarie. Infatti la Suprema Corte ha ribaltato la pronuncia della Corte d’Appello, che aveva negato il pagamento al lavoratore.
La controversia nasceva in quanto l’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP) di Reggio Calabria, che solitamente pagava gli infermieri per il servizio di dialisi svolto nel periodo estivo (erogato, tra l’altro, anche nei confronti di turisti presenti nella Regione durante il periodo di ferie), non lo aveva fatto nell’estate del 2013. L’infermiere aveva, quindi, ottenuto un decreto ingiuntivo contro l’ente al fine di ottenere quanto di sua competenza, fondando il proprio ricorso sulle disposizioni contenute nel contratto collettivo nazionale di lavoro.

La Corte d’Appello aveva annullato il decreto ingiuntivo, sostenendo che il caso fosse regolato dalla legge 402/2001, recante “Disposizioni urgenti in materia di personale sanitario”, recepita nel contratto collettivo 2008/2009. Secondo i giudici territoriali, tale legge richiedeva un’autorizzazione regionale e specifiche condizioni affinché il pagamento degli straordinari fosse riconosciuto ai dipendenti pubblici. Di conseguenza, l’infermiere non aveva diritto al pagamento perché le condizioni previste dalla legge non erano state rispettate.
L’infermiere proponeva quindi ricorso innanzi alla Suprema Corte di Cassazione, asserendo che, in realtà, le prestazioni erano state svolte in forza di incarico conferito direttamente dall’ente pubblico, quindi dietro consenso dello stesso.

Ebbene, i giudici di legittimità hanno accolto le richieste dell’infermiere, rilevando in primo luogo che il ricorso era stato tempestivamente presentato e correttamente notificato alla PEC dell’avvocato dell’Azienda Sanitaria Provinciale.

In punto di merito, la Cassazione ha affermato che, secondo un proprio orientamento consolidato, le remunerazioni delle prestazioni straordinarie nel pubblico impiego vengono riconosciute solo se conformi alle previsioni di spesa e l’accordo incompatibile con tali previsioni è invalido, rendendo quindi ripetibili eventuali pagamenti eseguiti in forza di tale accordo. Tuttavia, i giudici precisano che, una volta autorizzata e svolta la prestazione straordinaria, non è possibile far gravare sul lavoratore, in forza di quanto previsto dal combinato disposto degli artt. art. 36 Cost. e art. 2126 del c.c., le conseguenze di tali divergenze.
Al più la responsabilità graverebbe in capo alla Pubblica Amministrazione, la quale avrebbe dovuto impedire le attività straordinarie in mancanza dei relativi presupposti. Non è infatti concepibile, secondo gli Ermellini, che tale circostanza vada a detrimento della posizione giuridica ed economica del lavoratore pubblico.

La Cassazione, quindi, ha affermato il seguente principio di diritto: “in tema di pubblico impiego privatizzato, il disposto dell’art. 2126 c.c. non si pone in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedano autorizzazioni o con le regole normative sui vincoli di spesa, ma è integrativo di esse nel senso che, quando una prestazione, come quella di lavoro straordinario, sia stata svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, essa va remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, prevalendo la necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost.“.

In conclusione, la Corte ha riconosciuto che le ore lavorative extra configurano lavoro straordinario e devono essere pagate indipendentemente dalla regolarità delle autorizzazioni, purché ci sia il consenso, anche se implicito, del datore di lavoro.

Rimborso bollette gonfiate, in arrivo per 4 milioni di italiani: ecco come chiederlo ed ecco cosa devi controllare

• Tutela del consumatore – 06/07/2024 – AVV. MARCO DE GREGORIO

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Rimborsi in arrivo per circa 4 milioni di consumatori per i sovrapprezzi sulle bollette

Buone notizie per le bollette pagate nel 2022. Alcuni contribuenti, infatti, potrebbero chiedere un rimborso.
L’Antitrust, infatti, ha dichiarato negli ultimi giorni che i procedimenti – avviati nel 2023 – contro 5 imprese fornitrici di energia elettrica e gas sono ormai conclusi e hanno determinato l’erogazione di rimborsi per circa 600 mila consumatori, nonché per le piccole imprese.
L’importo complessivo rimborsato si aggira attorno ai 128 milioni di euro. Le sanzioni sono state irrogate a seguito delle modifiche unilaterali dei prezzi per la fornitura di gas ed energia, adottate da alcune aziende nel 2022, in contrasto con quanto previsto all’epoca da parte del legislatore.

Analizziamo più nel dettaglio la vicenda e, soprattutto, vediamo come i consumatori potranno ottenere i rimborsi a causa degli aumenti di prezzo.

La vicenda, oggetto dell’indagine dell’AGCM, nasce nel 2022, in piena crisi energetica, allorquando alcune aziende – impegnate nella fornitura di gas ed energia elettrica – aumentarono il costo dell’energia, provocando aumenti eccessivi nelle bollette per tutti i consumatori.
Il governo, al fine di calmierare i prezzi, con l’art. 3 del “Decreto Aiuti bis” (d.l. 115/2022), introdusse il divieto di effettuare aumenti unilaterali dei prezzi per la fornitura di energia elettrica e gas, a partire dal 10 agosto 2022 fino al 30 giugno 2023.
Più nel dettaglio, il suddetto decreto prevedeva la sospensione dell’efficacia di eventuali clausole contrattuali, che permettessero alle imprese impegnate nell’erogazione di energia elettrica e gas di procedere a modifiche unilaterali delle condizioni generali di contratto, con riferimento alla definizione del prezzo, sebbene fosse contrattualmente riconosciuto il diritto di recesso della controparte.  Inoltre, il d.l. considera come inefficaci i preavvisi comunicati per le dette modifiche unilaterali prima della data di entrata in vigore del medesimo decreto, salvo che le modifiche si siano già perfezionate.
Nonostante l’intervento del Governo, alcune compagnie – tra le quali Enel Energia, Eni Plenitude, Acea Energia, Iberdrola Clienti Italia, Dolomiti Energia e Edison Energia  inviarono comunque ai propri clienti alcune comunicazioni, con le quali proponevano delle modifiche tariffarie ai servizi offerti, con conseguente aumento del costo delle bollette.

Ebbene, nel 2023 l’Antitrust ha sanzionato tali aziende per la condotta citata, con una sanzione complessiva di oltre 15 milioni di euro. Secondo l’AGCM, infatti, le compagnie di gas ed energia elettrica avevano adottato pratiche commerciali particolarmente aggressive, attraverso le quali erano riuscite a spingere i consumatori ad accettare modifiche unilaterali dei contratti, che però determinavano un notevole incremento dei costi per l’erogazione dei servizi.
Tale condotta, ovviamente, contrastava in pieno con le previsioni di cui all’art. 3 del d.l. 115/2022, c.d. “Decreto Aiuti bis”.

È opportuno, però, evidenziare che ciascun consumatore, prima di richiedere l’eventuale rimborso per i detti motivi, deve verificare se, all’interno delle proprie bollette, sia effettivamente indicato il sovrapprezzo. Questo perché, a seguito dell’intervento dell’AGCM, alcune imprese fornitrici hanno provveduto al riconoscimento automatico dei rimborsi.
Secondo alcune stime, diffuse dalle associazioni dei consumatori, il numero dei soggetti interessati è piuttosto elevato, aggirandosi attorno alle 4 milioni di famiglie.
In ogni caso, ad oggi, secondo quanto dichiarato dall’Antitrust, già 600mila persone hanno beneficiato dei rimborsi automatici in bolletta ad opera delle compagnie energetiche.

SLG CUB Poste

► PIANO PIANO, STANNO COSTRUENDO IL REGIME ◄

Invece di “ragionare” sui motivi degli scioperi, in Italia si ragiona su come non fare scioperare, soffocando i diritti dei lavoratori.

SLG-CUB Poste pubblica un estratto della pag. 12 dell’ultima

“Relazione annuale 2024 sull’attività svolta nel 2023” della Commissione di Garanzia per l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi essenziali (come le Poste). La Commissione fu istituita nel 1990, in seguito al varo della legge 146, varata per reprimere gli scioperi nei servizi essenziali (come le Poste). La relazione è stata rivolta al Parlamento, dalla Presidente Prof.ssa Paola Bellocchi.

A pag. 12 della relazione, dunque, si legge il pensiero moderno, il quale, evidentemente, aleggia e coagula sempre più negli ambiti politici che vedono negli scioperi un fastidioso campanello di allarme sui disagi patiti dai lavoratori e, anziché risolverli, vorrebbero disattivare questo campanello. Ecco come si arriva a concepire che, se si sciopera in tanti, allora non va bene perché si blocca il Paese, mentre se si sciopera in pochi non va bene nemmeno, perché vuol dire che i sindacati sono scarsamente seguiti. Insomma, comunque la si giri, andando su questa linea, pare evidente che l’obiettivo è politico ed è quello di mettere in discussione la libertà dei lavoratori di seguire i sindacati liberi, cioè i sindacati oggi più piccoli, non sottomessi al “padrone” e non condizionati dai partiti. Certo, ovviamente, in ogni regime meno opposizione c’è e meglio possono esercitare il potere le caste sindacali e politiche, quelle di chi non rischia la vita sul lavoro, quelle di chi ha comodità a volontà ed è ben retribuito. Peccato che, dal 90 in poi, proprio favorendo il connubio tra partiti e sindacati che hanno garantito la mentalità della sudditanza, tra i lavoratori, il risultato è stato quello di una depressione economica generalizzata, di uno sfruttamento abominevole dei giovani e degli immigrati, di una disoccupazione enorme (mai vista dal dopo guerra agli anni 80) e di una strage con migliaia di #mortisulavoro (che non ha nessun riscontro in #europa). Ma questo è il regime che piace, evidentemente, quello che vorrebbe mantenere solo sindacati allineati alle politiche di un capitalismo selvaggio, che deve poter attaccare e sbranare senza limiti i diritti dei lavoratori, e senza che questi possano reagire democraticamente.

SLG-CUB Poste è uno dei sindacati piccoli che denuncia soprusi e ingiustizie ai danni dei lavoratori di #PosteItaliane e che attua scioperi, per mettere in evidenza le prevaricazioni che la #privatizzazione ha permesso e i danni economici, lavorativi e al servizio pubblico che ha prodotto. Ma, certamente, c’è chi vorrebbe il silenzio totale su queste tematiche: un silenzio di regime.

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