mercoledì, 10 settembre 2008

10/11 GENNAIO 2009 A PISTOIA

DALLE COMUNITA’ RESISTENTI ALLA SOVRANITA’ TERRITORIALE DAL BASSO PER LA MESSA IN COMUNE

Appello per un Incontro Nazionale delle comunità resistenti, dei comitati popolari, delle reti.
Due giorni di confronto, crescita collettiva, proposte operative
Da più parti si sente l’esigenza di costruire quella che potremmo chiamare una grande Assise nazionale delle comunità resistenti, dei comitati popolari, delle realtà impegnate contro le precarietà: del lavoro, dell’ esistenza, dell’ abitare, dei beni comuni.

Con quest’Appello vi  proponiamo  un incontro di confronto, di crescita ed eventualmente di costruzione di iniziative comuni,  da tenersi a Pistoia 10/11  GENNAIO 2009 A PISTOIA. Un incontro da intendersi anche come una delle possibili tappe verso un’auspicabile  Assise/Stati generali dei movimenti sociali.
Un invito rivolto all’insieme vasto ed eterogeneo del movimento contro le nocività, le devastazioni del territorio, la guerra permanente e le basi, contro le precarietà, contro le privatizzazioni e le liberalizzazioni dei servizi sociali e locali, contro l’ aumento di prezzi e tariffe;  a  difesa della salute e dei beni ecologici, storici e sociali fondamentali e per la loro messa in comune. Un invito rivolto ai migranti, ai movimenti rurali che lottano a difesa della biodiversità, per opporsi alla vendita delle terre demaniali e collettive e per il diritto di demanialità civica, alle associazioni, alle tante resistenze e ai  soggetti sfruttati nel lavoro riproduttivo e di cura (le donne al primo posto),  nel lavoro e nel lavoro cognitivo, ai sindacati di base (Cub, Cobas, RdB, Sincobas, Slai cobas, Usi), ai lavoratori dei servizi, della scuola e dell’ università.

Un incontro che vuole essere aperto alle diverse istanze, nel rispetto e nell’ accettazione dei differenti percorsi, delle diverse esperienze, dei molteplici approcci, ma anche  nella  consapevolezza  che  sono  indispensabili ed urgenti l’ avvio di un processo di ripotenziamento e il passaggio dalle resistenze alla costituzione di “sovranità territoriali” dal basso, fondate sulla reale autonomia dei soggetti sociali, per la messa in comune dei beni ecologici, storici, sociali. 

Una parte dell’Appello contiene materiali preparatori per la discussione ed il confronto,  certamente  parziali e non esaurienti. ( pg. 4 e seguenti ). Ci scusiamo in anticipo per la lunghezza  del contributo.

1. Vi proponiamo questo Appello partendo dalla nostra esperienza di “conflitto progettuale”. Un’esperienza maturata nel recente  ciclo di lotte sviluppatesi in Toscana in difesa della salute, contro le devastazioni  del territorio, le nocività ambientali, l’incenerimento dei rifiuti e  in favore della strategia Rifiuti Zero, contro la mercificazione di acqua, terre, energia, biodiversità; contro la centralità  della combustione,  compresa la combustione delle biomasse, inclusi  i rifiuti biodegradabili  e il business degli agrocombustibili; contro la liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi locali, contro l’aumento di prezzi e tariffe (in particolare contro la vergogna dei CIP 6 che paghiamo nella bolletta elettrica per finanziare inceneritori e petrolieri; e per la riduzione della TIA); contro le basi, fino all’ esperienza del Presidio “Giulio Maccacaro” per la chiusura dell’ inceneritore di Montale (PT).
Invitiamo ad un confronto ancorato alla concretezza, ivi comprese le proposte alternative maturate nel  movimento,   i comitati popolari, le reti, le associazioni, i rurali,  i sindacati di base, i migranti, le realtà che fanno parte del Patto di Mutuo Soccorso; le comunità resistenti a partire da NO Tav Val di Susa e Mugello, da Vicenza ( No Ederle e No Dal Molin), dalla Campania (Acerra, Chiaiano, Napoli, Caserta, Serre, Salerno), dalla Calabria; le Reti  nazionali ( Rifiuti Zero, No centrali, Movimento italiano dell’ acqua, Rete comitati per la difesa del territorio e del paesaggio, Foro Contadino, Ecovillaggi, CIR, Medici per l’ Ambiente); i movimenti di lotta per la casa; le realtà che si oppongono alle basi militari (Aviano, Camp Darby, Sardegna, Porto di Napoli, Novara); le comunità interessate dai siti per le scorie nucleari a cominciare dall’ inaccettabile proposta del sito unico nazionale; le lotte contro la precarietà del lavoro; le lotte dei migranti contro lo sfruttamento, il lavoro nero, la criminalizzazione e il rimpatrio;  le realtà resistenti nel mondo del lavoro, in particolare: ferrovieri, Breda, Enel, Aziende multiutilities: gas, acqua (Publiacqua toscana, ad esempio), rifiuti; mobilitazioni contro il pacchetto sicurezza, contro la distruzione del welfare e dei servizi pubblici, contro l’ abolizione del contratto nazionale di lavoro; contro i soldati in città e a presidio dei siti di impianti nocivi ( discariche, inceneritori, rigassificatori, TAV). 

Partiamo dalla consapevolezza che è necessario, per l’ insieme del movimento, avviare una riflessione approfondita sul senso e sul significato delle lotte e dei conflitti progettuali in atto, sulle loro potenzialità e sui loro difetti/limiti al fine di poter giungere alla comprensione delle possibilità più o meno radicali di cambiamento dell’esistente che queste esperienze portano in seno: la spinta autogestionaria, l’ autorganizzazione,  la difesa dell’ autonomia dei soggetti sociali e delle comunità resistenti, la difficoltà che trova il potere nel riassorbire le criticità che questi movimenti innescano e le potenzialità di cambiamento che ne discendono; le capacità che i movimenti hanno di creare sapere condiviso; il palese superamento, in alcuni ambiti, del concetto di democrazia rappresentativa a favore delle pratiche –cariche di potenzialità positiva- di democrazia diretta.

Per rispondere alle sfide che ci pongono l’instabilità strutturale della globalizzazione neoliberista, la nuova estesa e distruttiva infrastrutturazione del territorio, la recessione economica mondiale, il controllo militare delle città e dei siti degli impianti nocivi (discariche, inceneritori, rigassificatori, Tav, basi) occorre  avviare un processo di ripotenziamento e rafforzamento, facendo tesoro delle potenzialità e delle esperienze dei movimenti urbani e rurali,  dei comitati popolari e delle reti,  e cercando di costruire il passaggio dalle resistenze alla sovranità territoriale fondata sulla reale  autonomia dei movimenti  e sulla sua difesa.
L’obiettivo del rafforzamento dei conflitti progettuali esistenti potrebbe essere avviato nella  costruzione  di una griglia concettuale   efficace poggiata su istanze strategiche e non solo –ma anche-  vertenziali, attraverso rinnovate tipologie di intervento, nella consapevolezza di essere  portatori di interessi generali e planetari (energia, materia, beni ecologici fondamentali,  salute, socialità).
Fa parte di questo processo la costruzione di  nuove alleanze tra conflitti in difesa dei beni comuni collettivi, conflitti nella riproduzione,  conflitti dei lavoratori, dei lavoratori migranti, contro fabbriche ed impianti nocivi, contro le precarietà, in un legame stretto tra lotte ambientali/difesa della salute/ lotte del lavoro ed economiche.

Proponiamo due giorni di confronto su:
a) comunità resistenti e conflitti sul territorio. Nuove sfide poste dall’instabilità strutturale della globalizzazione neoliberista, dalla crisi energetica e alimentare, dalla dissuasione alle resistenze e alle proposte alternative attraverso il controllo militare delle città e dei siti; 

b) dalle resistenze, alla riappropriazione, alla sovranità territoriale dal basso. Ripotenziamento dei conflitti progettuali: superamento della forma stakeholder e delle posizioni identitarie e securitarie; messa in comune e assunzione del paradigma bioeconomico;

2. Come ci appaiono  i  territori  della Metropoli?
Sono i territori della devastazione delle relazioni sociali e dell’ambiente naturale, antropico, costruito; delle precarietà del lavoro e dell’esistenza; delle morti per malattie (in particolari tumori) provocate da cicli industriali nocivi e dall’agricoltura industriale basata sulla chimica di sintesi; i territori della sottomissione alla valorizzazione economica e al mercato dei beni ecologici, sociali e storici fondamentali  e dei servizi pubblici-collettivi ( beni comuni).  
Sono le nuove modalità di comando che costituiscono  le geografie  della globalizzazione neoliberista: nuove forme di colonialismo e di sfruttamento generalizzato e planetario della riproduzione, della forza lavoro e dell’intelligenza dei lavoratori e dei lavoratori migranti; ritorno, con modalità rinnovate, di un’ “antica” forma di accumulazione  per espropriazione ( D. Harvey ) : terre, beni ecologici collettivi fondamentali come acqua, fonti energetiche non riproducibili, semi, genoma, saperi e sapienze tradizionali delle comunità urbane e rurali; nuove forme di sfruttamento ad opera del “capitalismo cognitivo”  e importanza delle forme lavorative con al centro il sapere e la conoscenza; città e territorio quale immediata valorizzazione capitalistica; sfruttamento esteso dei territori rurali che sono l’ altra faccia della Metropoli, il suo imprescindibile altro, nei termini di approvvigionamenti agricoli, di biodiversità, di sociodiversità, di antiche modalità di uso della Natura e di agricoltura organica (contadini del Sud del mondo, ma anche del Nord).

3. Ricchezze e potenzialità dei comitati popolari e delle comunità resistenti
Le diffuse resistenze al modello neoliberista nocivo e devastante del Capitale globale -che ha assunto da tempo la forma di potere sul bios inteso sia come corpo sociale, che come beni ecologici collettivi e loro relazioni- contro le nocività, le nuove  infrastrutture lineari e puntuali funzionali al profitto e alla modernizzazione del sistema economico ma non al  benessere ed ai bisogni delle popolazioni, contro l’aumento di prezzi e di tariffe, hanno prodotto una ricca eterogeneità che ha dato luogo all’importante movimento dei comitati e delle comunità. Una estesa accumulazione di esperienze, di resistenze, di sapienze, saperi, conoscenze, di pratiche vincenti. Realtà che hanno saputo dar vita a molteplici conflitti progettuali (vale a dire conflitti capaci di costruire anche proposte alternative  concrete, non banali e qualche volta complessive).

4. Ripotenziamento e rafforzamento del movimento
E’ certamente vero che i conflitti progettuali in atto definiscono nuove possibilità e nuove potenzialità e alludono alla volontà di  costituzione sia di altri quadri di vita, che di soggettività realmente autonome capaci di trasformazione sociale verso nuove relazioni  tra uomo/donna –natura– società, verso la messa in comune.
Si tratta di opporci con rinnovate capacità e determinazione ai processi di deterritorializzazione prodotti dal Capitale globale e contemporaneamente avviare processi collettivi di riterritorializzazione, verso una reale autonoma sovranità territoriale che  costruisca nuove forme di socialità e metta in comune saperi, città, spazi sociali, beni  ecologici e storici  fondamentali, a cominciare dai beni da collocare fuori  dal mercato.
La moltiplicazione dei conflitti sociali, delle resistenze e delle proposte alternative, sembra ubbidire alla logica della frammentazione, in assonanza con la frammentazione della Metropoli. Ridurre questa frammentazione, “impone” al movimento dei comitati popolari e delle reti un adeguamento strutturale.
In questa direzione si tratta di superare la logica della perdente contrapposizione spontaneismo/organizzazione-coordinamento. 
Per fare questo è decisivo apprendere dalle lotte e dalle proposte alternative del movimento rurale, delle popolazioni contadine del Sud del mondo, in particolare del Centro e Sud America, che per prime e con maggior chiarezza si sono opposte al “biopotere” capitalistico.
Diventa quindi strategico attivare originali relazioni dal basso tra movimenti della Metropoli e movimenti e comunità dei territori rurali.

Dall’interno dell’esperienza delle comunità resistenti e dei conflitti progettuali, quindi con un atteggiamento critico che è anche autocritico essendone soggetti attivi,  nei materiali preparatori che seguono  proviamo  a  dare una lettura dei processi in atto e  a dare qualche indicazione parziale e certamente insufficiente su come il processo di ripotenziamento e il passaggio dalle resistenze alla costituzione di sovranità (alimentare, territoriale) debbano passare  per l’evoluzione e/o  per l’ abbandono di due forme costitutive che caratterizzano e limitano in particolare i comitati popolari (logica securitaria e forma stakeholder), e dalla  assunzione del paradigma bioeconomico e della messa in comune,  quali   orizzonti del movimento presente e a venire.
Non vogliamo certamente disconoscere la straordinaria importanza e fertilità del movimento dei comitati e delle reti,  ma semplicemente sottolineare alcuni nodi che rischiano di bloccare il completo dispiegamento dei “conflitti  progettuali”.

proposta di organizzazione dell’ incontro
L’ incontro  si tiene a Pistoia  nei giorni di Sabato 25 e Domenica 26 Ottobre 2008.
Prima giornata Sabato 25 Ottobre ore 14/19 
Breve presentazione delle ragioni dell’incontro. 
Comunità resistenti e conflitti sul territorio. Nuove sfide poste dall’instabilità strutturale della globalizzazione neoliberista, dalla crisi energetica e alimentare, dalla dissuasione alle resistenze e alle proposte alternative attraverso il controllo militare delle città e dei siti;  
Seconda giornata Domenica 26 Ottobre ore 9/14
Dalle resistenze, alla riappropriazione, alla sovranità territoriale dal basso. Ripotenziamento dei conflitti progettuali: superamento  della forma stakeholder e delle posizioni  identitarie e securitarie; messa in comune  e assunzione del paradigma bioeconomico;
ore 15/ 18 discussione plenaria e stesura di un testo comune condiviso
L’incontro avrà carattere assembleare. Saranno formati eventuali gruppi di lavoro

Collettivo liberate gli Orsi, Pistoia e Assemblea ex Presidio “Giulio Maccacaro” per la chiusura dell’inceneritore di Montale

Sono  garantiti cibo e pernotto.
Riferimenti per  informazioni e  comunicazioni
Fabrizio: 0573.29.720, faber.b@libero.it – Francesco: f.scire1@libero.it, 333.91.10.255 – Marco: pistoianarchica@gmail.com – Roberto: icrob@libero.it, 338.73.34.659

1. Instabilità strutturale, ricchezze e potenzialità dei conflitti progettuali
Il Capitale globale sembra incapace di costruire un ordine adeguato all’instabile sistema di relazioni sociali da esso stesso costruito, tanto che il suo obiettivo più o meno consapevole potrebbe essere piuttosto la creazione di una forma di caos permanente, rispetto al  quale  rimodellare in continuazione nuove forme di comando. Il caos abita i territori, le città, le relazioni produttive, sociali, territoriali.
L’attuale recessione economica mondiale e le difficoltà del neoliberismo in campo economico, sociale, ambientale, sono caratterizzate  da una pluralità di fattori d’instabilità strutturale: crisi energetica, crisi alimentare, guerre per il controllo geopolitico di territori  strategici, crisi della  Metropoli quale sistema insediativo ad alta dissipazione energetica e sociale.
Si tratta di una recessione di dimensione planetaria. Tra le diverse cause che la alimentano, gli attuali costi delle fonti energetiche convenzionali e la scarsità relativa, con rischio di esaurimento,  di alcune materie prime e delle fonti energetiche fossili innescano uno stato di crisi economica globale e di “guerra permanente” per il controllo di territori strategici: vedi la guerra nel Golfo, l’attuale grave situazione di crisi politico-militare nell’area del Caucaso: Georgia e Federazione Russa, Ossezia del Sud e Abkhazia, e poi Iran, Iraq, Pakistan, Afghanistan, dentro una tensione geopolitica legata al controllo di combustibili fossili, oleodotti, gasdotti, posizionamento di basi militari e dei missili intercettatori (vedi il recente accordo USA-Polonia).

Relativamente all’energia e all’uso integrato di fonti non rinnovabili e rinnovabili, si pone la necessità di una transizione energetica   verso l’uso esteso delle fonti rinnovabili; circostanza della quale il sistema economico e gli Stati egemoni dovrebbero prendere atto, invece di  cercare  rimedi  inefficaci. 
Uno di questi falsi rimedi è il rilancio dell energia nucleare (l’atomo di pace!), una tecnologia vecchia ed inaffidabile che non ha risolto i problemi legati al ciclo dell’uranio: confinamento delle scorie, rilasci di gestione pericolosi per la salute umana e per l’ambiente, possibilità di incidenti di medio-grande impatto (vedi i recenti numerosi incidenti nelle centrali nucleari in Francia), rischi di  proliferazione. Inoltre il costo di costruzione delle centrali nucleari, di estrazione e di trattamento dell’uranio, di confinamento delle scorie è talmente alto che il Kwh  nucleare è ancora oggi  molto più costoso di quello convenzionale.
Un secondo rimedio inefficace e dagli effetti economici dannosi per la collettività, è l’utilizzo su larga scala della combustione delle  biomasse, ivi compresa la combustione dei rifiuti cosiddetti biodegrabili e degli agrocombustibili. Il Capitale globale si è da qualche tempo gettato sulla produzione e la commercializzazione degli agrocombustibili.
In particolare si tratta degli interessi convergenti di quattro formidabili corporazioni transnazionali: petrolifere ed energetiche, quelle che controllano il mercato agricolo e delle sementi transgeniche, grandi imprese automobilistiche e di trasporto,  banche e finanza mondiale.
Gli agrocombustibili – secondo Miguel Altieri esperto di  agroecologia dell’ Università di Berkeley –  sono la forma più avanzata, insieme agli Ogm, di un nuovo “imperialismo ecologico”.

La terra e i semi sono  i fondamenti dei sistemi agrari e della sovranità alimentare. Il Capitale globale tende a ridurre e a marginalizzare le dinamiche di approvvigionamento informale: risemina, scambio o vendita tra contadini: tutte modalità di scambio vantaggiose per i campesinos e per le comunità locali. Per queste ragioni il Capitale globale tende a controllare i semi, sia in termini di mercato, che in termini di varietà su cui avanzare diritti di proprietà. Gli Ogm sono strumentali a questa doppia strategia: privativa brevettale e marketing aggressivo.

Si tratta di due aspetti centrali dell’ instabilità strutturale: crisi energetica e crisi alimentare.
Le due crisi descrivono bene un modello di produzione-consumo e di abitare che sta collassando e si va esaurendo: l’intensità energetica dello sviluppo, la produzione di enormi quantitativi di rifiuti industriali ed urbani, le nocività dei cicli produttivi e i disastri ambientali, le morti per cancro indotto dalle nocività, le morti per fame, le logiche della finanza neoliberista esportati nei paesi poveri da FMI e Banca Mondiale attraverso le politiche di aggiustamento strutturale, miseramente fallite dopo aver distrutto paesi e popolazioni del Sud.
La necessaria transizione energetica verso le energie veramente rinnovabili, diventa per il sistema economico dominante soltanto una strada tra le altre –spesso residuale- per non dipendere dal petrolio e dal gas naturale di paesi instabili od ostili.

In realtà siamo al tramonto di un’epoca dominata dallo sviluppo e da un trend pressoché costante di crescita economica. Il sistema socio-economico dominante non regge più. Non volendo affrontare gli inevitabili cambiamenti strutturali nell’uso dei beni naturali, nei cicli produttivi e nei rapporti sociali, esso è costretto a cercare risposte nella “guerra permanente”, nella proliferazione di leggi spesso contraddittorie e inefficaci, nell’uso dell’ esercito e della polizia per consentire la realizzazione di infrastrutture ed impianti necessari a continuare lo sviluppo, ma che portano, invece, al collasso i  diversi contesti sociali, ambientali, insediativi.

Tra questi fattori d’instabilità strutturale, giova ricordare il carattere del nuovo processo inflativo in atto, nel quale la finanza assume un ruolo strategico nella distribuzione della ricchezza, gestendo e speculando sulle materie prime energetiche ed alimentari (comprese  quelle bio-ecologiche) e producendo effetti a catena su una parte rilevante dei cicli produttivi, secondo l’instabilità dei prezzi trainati  dalla speculazione finanziaria su materie prime energetiche, alimentari, di base. Basti  pensare all’aumento  e  poi al repentino crollo dei prezzi dei combustibili fossili, del rame, del frumento, di riso e granturco. Una fluttuazione dovuta al gioco finanziario dello spostamento di investimenti dai titoli travolti dalla crisi immobiliare legata al mancato rientro dei mutui (specie negli U.S.A.), ai titoli legati al petrolio e alle materie prime anche alimentari (prodotti alimentari la cui produzione, nel frattempo, è entrata in concorrenza con quella degli  agrocombustibili, specie in Centro e Sud America).

L’attuale recessione economica  mondiale non implica  la liquidazione -in ogni caso auspicabile- della globalizzazione neoliberista, ne  descrive piuttosto una possibile evoluzione nella direzione di un nuovo assetto economico e politico: ridotto ruolo del WTO, della Banca Mondiale, del FMI,  in favore di altri centri del comando.
Il Capitale globale modifica le proprie gerarchie mentre costruisce nuove divisioni internazionali del lavoro, nuovi sfruttamenti della  forza lavoro e dell’ intelligenza  migrante, nel tentativo di rendere il caos elemento costitutivo di un nuovo ordinamento sociale, o farne, viceversa, forma permanente della propria costituzione materiale e simbolica.

Le diffuse resistenze al modello neoliberista nocivo e devastante del Capitale globale -che ha assunto da tempo la forma di potere sul bios inteso sia come corpo sociale, che come beni ecologici collettivi e loro relazioni- si sono positivamente dispiegate contro le grandi corporazioni che decidono le dinamiche dell’economia mondiale e gli assetti socio-territoriali e hanno cercato di costruire nuove alleanze sociali e originali forme di coordinamento.
I conflitti progettuali in atto definiscono nuove possibilità e nuove potenzialità e alludono alla volontà di costituzione sia di altri quadri di vita, che di soggettività realmente autonome capaci di trasformazione sociale  verso nuove relazioni tra uomo/donna –natura– società. 

La moltiplicazione dei conflitti sociali, delle  resistenze e delle proposte alternative, sembra ubbidire alla logica della frammentazione, in assonanza con la frammentazione della Metropoli.
E tuttavia è nella Metropoli (nelle città vive oggi più della metà della popolazione mondiale) luogo di produzione materiale e immateriale, di accumulazione di nocività, di nuove forme di espropriazione ed essa stessa immediatamente valorizzazione capitalistica, che si rendono possibili processi di riappropriazione  e di liberazione.
I territori rurali sono l’altra faccia della Metropoli, il suo imprescindibile altro, in termini di approvvigionamenti agricoli, di biodiversità, di sociodiversità, di antiche modalità di uso della Natura e di agricoltura organica  (contadini del Sud del mondo, ma anche occidentali). 

Tutto questo “impone” al movimento dei comitati popolari e delle reti un adeguamento strutturale, se solo si vogliono rendere coerenti con il cambiamento delle relazioni sociali e di queste con l’ ambiente naturale, antropico, costruito i tanti “conflitti progettuali” presenti  nei territori. 
Per fare questo è importante apprendere, non sembri un paradosso, dalle lotte e dalle proposte alternative del movimento rurale, delle popolazioni  contadine  del Sud del mondo, in particolare del  Centro e Sud America, che per prime e con maggior chiarezza  si sono opposte al “biopotere” capitalistico. 
Diventa quindi strategico attivare originali relazioni dal basso tra movimenti della Metropoli e movimenti e comunità dei territori rurali.

Occorre partire dalle potenzialità del movimento, avviare processi diversificati di ripotenziamento e di rafforzamento dei movimenti urbani e rurali, dei comitati popolari e delle reti, costruendo il passaggio dalle comunità resistenti alla sovranità territoriale fondata sulla reale autonomia dei movimenti  e sulla sua difesa.
Non si parte da zero. Al contrario: si parte da una straordinaria ed estesa accumulazione di esperienze, di resistenze, di sapienze, saperi, conoscenze, di pratiche vincenti (Accumulazione di potenza).
Detto altrimenti si tratta di opporci con rinnovata capacità ai processi di deterritorializzazione prodotti dal Capitale globale e contemporaneamente avviare processi collettivi di riterritorializzazione, verso una reale autonoma sovranità territoriale che  costruisca nuove forme di socialità e metta in comune saperi, città, spazi sociali, beni  ecologici e storici  fondamentali, a cominciare dai beni da collocare fuori dal mercato.

In questa direzione  si tratta di superare   la logica della perdente contrapposizione spontaneismo/organizzazione-coordinamento. 
L’obiettivo potrebbe essere ricercato nel rafforzamento dei conflitti progettuali esistenti, costruendo una griglia concettuale efficace  poggiata su istanze strategiche e non solo vertenziali, attraverso rinnovate tipologie di intervento e di conflitto, nella consapevolezza di essere  portatori  di interessi generali e planetari (energia, materia, beni ecologici fondamentali, salute, socialità ).
Fa parte di questo processo la costruzione di nuove alleanze tra conflitti in difesa dei beni comuni collettivi, conflitti dei lavoratori, dei migranti, contro fabbriche ed impianti nocivi, contro le precarietà, in un legame stretto tra lotte ambientali/difesa salute/ lotte del lavoro ed economiche.
2. Ripotenziamento, messa in comune, sovranità territoriale dal basso
Dall’interno dell’esperienza delle comunità resistenti e dei conflitti progettuali, quindi con un atteggiamento critico che è anche autocritico essendone soggetti attivi, proviamo a dare qualche indicazione parziale e certamente insufficiente su come il processo di ripotenziamento e il passaggio dalle resistenze alla costituzione di sovranità (alimentare, territoriale) debbano passare per l’evoluzione e/o per l’abbandono di due forme costitutive che caratterizzano questo vasto movimento, e dall’assunzione del paradigma  bioeconomico e della messa in comune, quali orizzonti del movimento presente e a venire.
Non vogliamo certamente disconoscere la straordinaria importanza e fertilità del movimento dei comitati e delle reti, ma semplicemente sottolineare alcuni nodi che rischiano di bloccare il completo dispiegamento dei “conflitti  progettuali”. 

2.1.1 Si tratta di rendere residuale, fino all’abbandono, la tendenza ad assumere la logica securitaria e identitaria/autoreferenziale; una logica spesso presente nel multiverso dei comitati popolari.
Da una parte tale tendenza si esprime nella subalternità alla concertazione (anche se si tratta di una concertazione “calda”, vale a dire  ancorata al dispiegarsi di lotte concrete) e alla delega al tecnico e all’ avvocato di parte, allo scienziato amico (aspetti  fondamentali nei conflitti messi in campo dai comitati e non solo in questi, ma aspetti depotenziati se sono basati sulla delega). 
Dall’ altra si nota un’incapacità o una non volontà di collegarsi a conflitti analoghi, a praticare solidarietà, ad assumere un’ottica e una dimensione globali; come se guardare oltre la specificità (e spesso la specializzazione) del problema su cui si lotta, rendesse più impervia la strada per il raggiungimento dell’ obiettivo (in realtà è esattamente il contrario). Ciò si nota nella difficoltà di collegare le tematiche della gestione dei rifiuti a quelle dell’ uso del territorio, i temi della difesa della salute alle dinamiche economiche e lavorative, le mobilitazioni per la difesa del paesaggio a quelle contro le nocività, e via dicendo.
Ciò riduce il coinvolgimento collettivo, o meglio definisce un coinvolgimento passivo (l’ottica del tifoso prevale su quella del giocatore/attore), bloccando la socializzazione delle competenze senza allargare conseguentemente la partecipazione alla discussione dei problemi e ritardando l’assunzione di un’ottica globale.
E’ ovvio che analizzando una tendenza, si rischia di lasciare nell’ombra le eccezioni rispetto ad un comportamento idealtipico. Per esempio gli attivisti più coinvolti delle reti e dei coordinamenti sfuggono a queste logiche identitarie-securitarie- localistiche, basti pensare alla Rete Rifiuti Zero, alle comunità resistenti della Val di Susa e a quelle NO Dal Molin, alla Campania, al Movimento italiano dell’acqua, alla rete NO centrali, al Foro contadino. Ma questo non sposta i limiti del movimento dei comitati, e non allontana la fragranza di localismo conservatore che spesso abita i comitati popolari.

2.1.2. Si tratta di far evolvere e di superare la forma-Stakeholder (portatori di interessi) quale specifico carattere assunto dai comitati popolari e da parte delle comunità resistenti. 
Questo carattere prevalente confina i comitati popolari nell’ottica dell’impresa capitalistica, in particolare dell’ impresa capitalistica CSR (Corporate Social Responsibility). 
Il punto di vista dei comitati–stakelhoders rischia di prendere i problemi, di esercitare conflitto solo dal lato della gestione  dei medesimi  (ottica minimizzatrice), a prescindere  dalle (buone) intenzioni.
Anche in questo caso si tratta di un carattere idealtipico, che non riguarda tutte le realtà, ma che corrispondente alle dinamiche   esistenti nei territori dei conflitti. In ogni caso la pertinenza e la potenzialità dei comitati-stakeholders, appaiono  in parte usurate e non completamente corrispondenti alle sfide che ci pongono l’instabilità strutturale, la nuova potente infrastrutturazione del territorio, la recessione economica mondiale, il controllo militare delle città.  
Certamente la critica dei comitati-stakeholders sull’estensione del degrado ambientale e sociale è stata ed è pertinente, ma resta incapace di  delineare una strategia   di reale  fuoriuscita  dalle logiche del mercato e dello sfruttamento dell’uomo e della natura. 

*La storia è nota. La ricapitoliamo in  estrema sintesi. 
Nel paradigma marginalista (individualismo, ottica del cowboy e del far west), l’unica responsabilità dell’Impresa è quella economico-finanziaria per cui non vi è contraddizione tra utile d’impresa e benessere sociale. Le risorse sono illimitate, c’è libertà di massimizzare la crescita economica  e l’utile individuale.
La reazione etico-sociale di lavoratori e cittadini preoccupati per gli effetti sociali dell’impresa capitalistica e dell’industrializzazione, ha prodotto il Welfare State; la reazione socioambientale dei cittadini alla libertà di accumulazione di malattie e inquinamento  ha generato politiche di minimizzazione dei rischi sanitari e ambientali; le critiche Stakeholder all’aumento del degrado socio-ambientale, della distruzione creativa operata dall’impresa capitalistica e dall’ imperativo dell’ utile a danno dell’ ambiente naturale, dell’ ambiente  antropico e dell’ambiente costruito, hanno dato origine all’impresa CSR.
Infatti se i processi di deregolamentazione e di liberalizzazione/privatizzazione ampliano la libertà dell’impresa di perseguire il proprio utile, essi impongono all’ impresa di comunicare la propria attività a tutti gli Stakeholders, a causa  delle condizioni  di  concorrenza  imperfetta e di asimmetria informativa  conseguenti alla deregolamentazione.
La presunta e sbandierata responsabilità sociale della nuova impresa capitalistica CSR è un tentativo di superare i motivi di impopolarità  del capitalismo quali elementi decisivi per un suo declino in un contesto di democrazia politica. 

In realtà la Terra è un sistema chiuso, e in un sistema chiuso, nel lungo periodo, non può esservi crescita illimitata. Il continuo utilizzo di materia ed energia aumenta il grado di entropia.
In questo quadro, noto al capitalismo pensante, la strategia CSR cerca di salvare la capra della libertà dell’impresa capitalistica e i cavoli dell’abbondanza promessa e del proprio ordinamento sociale. In sostanza l’obiettivo è sostenere la necessità di buona reputazione socio-ambientale dell’impresa, per continuare a soddisfare l’imperativo del profitto e dell’accumulazione, cercando di evitare i conflitti tra impresa e lavoratori, consumatori, collettività/territorio locale, istituzioni.

2.1.3. Si tratta di costituirsi come  volontà generale biologica alternativa.
Si tratta -da parte del movimento dei comitati popolari, delle reti e delle comunità resistenti– di assumere in modo convinto e complessivo il paradigma bioeconomico. L’insieme dei movimenti a difesa dei beni comuni segna un  ritardo su questo aspetto.
Anche il movimento Rifiuti zero, le migliori esperienze di lotta contro impianti per la produzione di energia e a favore  della scelta delle energie veramente rinnovabili, quanti contestano la combustione, presentano alcune incertezze su questo punto. 
In breve. Nel paradigma della bioeconomia, la Terra è un sistema chiuso (scambia solo energia e non materia con l’esterno), vige il secondo principio della termodinamica (legge di entropia), il continuo utilizzo di materia-energia aumenta l’entropia. 
Le risorse minerali non sono né sostituibili, né inesauribili. Per questa ragione, ogni automobile costruita oggi significa meno beni per le generazioni future e anche meno esseri umani.
Il processo economico pertanto non è isolato e/o autosufficiente; esso non può sussistere senza un continuo interscambio che provoca cambiamenti che tendono ad accumularsi nell’ambiente. Il processo economico è irreversibile.
Come nota Georgescu-Roegen, la società umana con l’invenzione della macchina termica (con cui si può ottenere energia meccanica e cinetica dal fuoco alimentato dai combustibili minerali/fossili) ha pensato di aver risolto i suoi problemi energetici, per cui ci siamo fatti trovare impreparati dall’attuale crisi  bioeconomica. Siamo di fronte al problema di passare da un’economia  creata su una   abbondanza di combustibili fossili e di materiali ad una economia senza abbondanza di combustibili fossili o senza combustibili fossili.

2.1.4. Si tratta di costruire “il comune”.
Perché la messa comune? Perché riferirci all’orizzonte dei “commons”? (il tema è molto ampio e complesso e non possiamo qui  farvi nemmeno un accenno: tragedia dei commons (G.Hardin), tragedia degli anticommons (M.A. Heller) e dibattito.
Perché appare la forma sintomatica, la modalità utile per difendere i beni essenziali, limitati e non riproducibili; la città come bene collettivo e pubblico, i saperi, gli spazi sociali, la capacità di costituire nuove socialità, nuovi legami sociali, reale  autonomia dei soggetti sociali.
Perché pone la questione della riappropriazione, del fare nuovamente propri da parte del lavoro vivo e dell’intelletto sociale generale la ricchezza prodotta, gli spazi insediativi, il bios ecologico, sociale, politico.
Perché ritorna d’attualità, anche in relazione allo stato di distruzione del pianeta e alle esperienze di lotta e di vita di molti fratelli e sorelle del sud del mondo (in particolare Centro e Sud America: Sem Terra, Via Campesina,  Zapatismo) la questione della proprietà collettiva,  vale a dire di un altro modo di possedere, secondo la felice espressione di  Paolo Grossi. 
D’altro canto anche nel diritto, non più solo in quello anglosassone, si consolida l’idea di proprietà non più legata al possesso ma all’utilizzo.
In realtà il tema è quello dei beni, più che della proprietà. La domanda è: quali beni vanno tolti dal mercato?
La messa in comune diventa quindi un aspetto niente affatto residuale, “medioevale”, precapitalistico, ma reale e di crescente importanza.
In questo quadro si apre l’orizzonte della ricostituzione in forme attuali e utili delle demanialità civiche, degli usi civici, dei  Commons.

3. Mutazioni delle relazioni di comando per fronteggiare l’instabilità strutturale

3.1. Guerre legate al disequilibrio tra beni naturali fondamentali (“risorse” dal punto di vista del sistema economico): fonti energetiche non riproducibili, acqua, biodiversità, terre per la produzione di alimenti e loro utilizzo, e mancata presa d’atto di questo disequilibrio e della necessità –non più rinviabile- di un altro modo di produrre e di consumare, a iniziare dai modi di consumare e produrre energia, dal risparmio dei beni ecologici fondamentali  e dall’ allungamento del ciclo di vita dei prodotti.
La “guerra permanente” -una guerra contemporaneamente economica, ecologica, sociale e militare- è in larga parte collegata a questi estesi e crescenti disequilibri.
Lo si vede nella necessità del controllo –per gli Stati e le grandi corporazioni transnazionali energetiche, alimentari e finanziarie-  dell’intero ciclo energetico: fonti energetiche fossili, nucleare, fonti assimilate alle rinnovabili come la combustione delle biomasse (ivi compreso l’incenerimento dei rifiuti biodegradabili), e nella scelta di destinare interi territori del Sud del mondo (in particolare in America Latina) alla produzione di agrocombustibili, riducendo così la quantità di  terra destinata alla produzione di alimenti con conseguente impennata dei prezzi di grano, riso, pane e, a seguire,  aumento di morti per fame  nel Sud del mondo. 

Secondo diversi analisti (tra gli altri Paul Virilio) le nuove forme di guerra hanno come teatro prioritario le città. Lo si può riscontrare nella dislocazione della strategia militare dentro la Metropoli, intesa sia come comando sulla produzione e sulla riproduzione, che come città di grandi dimensioni. 
La “dissuasione  armata” è rivolta essenzialmente ai civili, ai migranti, alle comunità resistenti a difesa dei beni comuni ad iniziare dalla salute; sta nei decreti sicurezza, nelle leggi speciali. Le nuove forme di controllo militare si esprimono nella criminalizzazione delle proteste e delle lotte che ostacolano l’ideologia del “fare” (ivi compreso l’ambientalismo del fare ) e  nella  dissuasione  alla  resistenza  e al conflitto.
In Italia sono segnali di questa tendenza alla guerra e al controllo militare sul teatro urbano la dislocazione dell’esercito professionale in  molte grandi città, o a presidiare discariche, inceneritori, aeroporti, stazioni, cantieri delle grandi e meno grandi opere pubbliche puntuali e lineari (TAV, autostrade, rigassificatori) oppure, sul versante normativo, il decreto che esclude la Valutazione Ambientale per qualsiasi tipo di opera che, secondo il governo, sia di difesa nazionale o su cui venga apposto il segreto di Stato.

3.2. Nuova gerarchizzazione sociale e territoriale realizzata dal capitale globale. I territori della Metropoli.
Nuove modalità di comando che rendono il caos funzionale al tentativo di perpetuare il capitalismo e che definiscono una diversa geografia produttiva, sociale e insediativa. 
* Nuove forme di colonialismo e di sfruttamento generalizzato e planetario della forza lavoro e dell’intelligenza dei migranti;
* Ritorno, con modalità rinnovate, di un’antica forma di accumulazione per espropriazione (D. Harvey): terre, beni ecologici collettivi fondamentali come acqua, fonti energetiche non riproducibili, semi, genoma, saperi, sapienze tradizionali delle comunità urbane e rurali;
* Dilatazione  della precarietà nei rapporti di lavoro e nell’esistenza; affermarsi di logiche e pratiche securitarie;
* Importanza del lavoro cognitivo (sapere e conoscenze come fattori centrali dei processi di produzione di merci, servizi, informazioni); 
* Crescente importanza dei servizi alle imprese, dei servizi locali e sociali nell’estrazione del profitto (liberalizzazione e privatizzazione dei servizi locali; passaggio dal finanziamento dei servizi locali con la fiscalità generale a quello con la fiscalità di scopo. Tariffe che coprono investimenti e servizi offerti: è il caso di gas, acqua, rifiuti, energia elettrica). Predominio del capitale finanziario nei servizi: multiutilities.
Relativamente ai servizi locali e alla loro liberalizzazione/privatizzazione, bisogna sottolineare come tali servizi riguardino beni rivolti a soddisfare bisogni fondamentali e imprescindibili. Tali bisogni “condizionali” incidono in modo non marginale sul lavoro, la vita delle persone, l’organizzazione della città, nelle relazioni territoriali. Essi rientrano nei servizi pubblici d’nteresse generale. 
Sono quindi beni che NON vanno posti sul mercato, proprio il contrario di quanto si sta facendo con i processi di liberalizzazione-privatizzazione e di deregolamentazione. 
E’ per queste ragioni che l’insieme dei movimenti e dei comitati (movimento italiano per l’acqua pubblica, Rete Rifiuti Zero, Rete centrali e realtà in lotta contro l’ attuale modalità di produzione di energia), si battono tanto per la ripubblicizzazione su basi nuove dei servizi locali, quanto per l’avvio di vertenze sulle tariffe acqua, rifiuti, Cip 6, certificati verdi: bolletta elettrica; autoriduzione Tariffe.
 * Territorio e città come forma della valorizzazione capitalistica. Il territorio (infrastrutture, impianti energetici, rinnovo urbano, rendite fondiarie) definitivamente ridotto a merce, non è più solo capitale fisso sociale ma anche flusso di capitali, di merci, di persone.
Con il neoliberismo la città, il territorio “metropolitano” e i territori rurali vengono ulteriormente semplificati, ridotti a merce, a sistemi  uniformi e instabili dove comandano le ragioni del libero mercato, sia globale che locale.
Le città che per loro stessa costituzione materiale e simbolica sono state considerate bene collettivo e spazio pubblico, sono diventate  vere e proprie “unità” produttive complesse, forma diretta di accumulazione e valorizzazione capitalistica. Il Capitale globale ha definitivamente  sottoposto  alla propria valorizzazione la città e il territorio. Ormai il territorio  è diventato una slot machine (Ziparo).  
L’infrastrutturazione del territorio, i processi di rinnovamento e di ri-valorizzazione delle città, l’estensione delle produzioni nocive e delle conseguenti malattie e morti, il ruolo centrale di comando produttivo e finanziario delle “città globali” (Saskia Sassen), le Expo, le  speculazioni immobiliari, le rinnovate e esponenziali rendite urbane, le mercificazione dei beni comuni ecologici, storici e sociali, con la  contemporanea distruzione di beni collettivi fondamentali (terra, biodiversità, acqua, ecosistemi), sono gli elementi di questa   complessa e articolata  unità produttiva.
Infine la città da utopia costruita della liberazione e delle socialità umana è divenuta il terminale delle nuove forme di guerra e di  controllo militare dell’ esistenza.

Non è un caso quindi che i comitati popolari, le comunità resistenti, e il dispiegarsi dei “conflitti progettuali” degli ultimi anni   siano nati e siano cresciuti proprio su e contro queste strategie globali di uso del territorio e dei beni ecologici primari  (materia, energia, acqua, terra, città, casa: NO Tav, No Mose, No Ponte, NO Inc e per Rifiuti Zero, No autostrade, No agricoltura industriale, NO Ogm, No agrocombustibili; NO privatizzazione /liberalizzazione dei servizi, No espropriazione di terre collettive e civiche, semi.)

Si tratta ora di avviare processi sociali per   invertire la rotta: verso la messa in comune della città, dei beni ecologici fondamentali, a principiare dall’energia e dagli alimenti ( sovranità alimentare ), dei saperi, delle conoscenze, della ricchezza prodotta,   verso un  loro uso collettivo, egualitario e parsimonioso,  ecologicamente coerente. 
Movimenti  della Metropoli e movimenti rurali convergono. Verso  la costituzione  di diritti alla terra, alla salute, alla casa, all’educazione, al conflitto  progettuale, oltre la solidarietà tra consumatori del nord e piccoli produttori del  sud.  Verso la  sovranità  territoriale.  

3.3. Criminalizzazione  delle  comunità resistenti
La criminalizzazione dei migranti e delle comunità resistenti viaggia su diversi binari: il pacchetto sicurezza e le relative misure liberticide, le schedature delle popolazioni Rom e Sinti, le impronte digitali dei Rom, ivi compresi bambine e bambini. Il settimanale Famiglia Cristiana parla di metodi fascisti; in ogni caso il governo italiano ha violato la Direttiva 200/43 che sancisce la parità di trattamento tra le persone, indipendentemente dalla loro origine etnica.
Ne emerge un’Italia xenofoba: l’ ex “bel paese” impregnato di razzismo, intolleranza, indifferenza. 
In questo quadro rientrano la delega ai sindaci perché assecondino le richieste della pancia reazionaria del paese; così come vi rientrano la cancellazione dei diritti dei precari ad essere assunti (non è più tempo di tutele collettive, legislative, sindacali!) e la messa in discussione dei contratti collettivi di lavoro (vedi la “legge antiprecari” art. 21 d.l. 112/08 sui contratti a termine, vera e propria  violazione del principio di uguaglianza).
Vi rientrano anche i tagli alla sanità (compresa la reintroduzione dei ticket sanitari), alla scuola e all’università.

Forme di controllo e di comando, quelle citate, non più  inscrivibili unicamente nelle classiche pratiche di repressione delle realtà e dei gruppi in varie forme antagonisti. Una repressione che peraltro continua come portato storico di una tradizione dura a morire.  Nel controllo armato delle città e degli impianti, nella guerra permanente  per il controllo di aree del pianeta e delle riserve fondamentali (fonti energetiche fossili, acqua, biodiversità), nel comando sulle dinamiche metropolitane c’è qualcosa di profondamente diverso e di più  potente della consuete e conosciute forme repressive dell’antagonismo. 

Infatti se spostiamo lo sguardo verso le strategie politiche e militari internazionali, queste nuove forme di comando militarizzato del territorio e delle città non possono essere lette soltanto come effetto del “delirio” securitario, ieri del governo Prodi e oggi di quello Berlusconi, ma come uno dei punti del programma globale di Pentagono e Nato, relativo all’uso degli eserciti nelle megalopoli del futuro.
Il riferimento è allo studio NATO “UO” (Urban Operations 2020) dove la città del futuro viene indicata come luogo di concentrazione di tutte le contraddizione della società capitalistica allo stadio supremo e, per questo, come probabile campo della battaglia “finale” per la “sopravvivenza” del Capitale globale. Nelle megalopoli del futuro –forse di un futuro prossimo- azzeramento dei servizi sociali, aumento delle ingiustizie e dei prezzi, scarsità di acqua, di cibo, di energia e di lavoro daranno vita a conflitti e a rivolte di grande impatto che le  forze di polizia non saranno probabilmente in grado di fronteggiare e di reprimere (oggi ne possiamo già cogliere alcune anticipazioni:  attacco alle comunità resistenti in Val di Susa, a Vicenza, Chiaiano, Serre, Acerra, Napoli). Questo ragionamento porta lo Studio Urban Operations 2020, ad invitare gli Stati della Nato e le amministrazioni regionali a utilizzare gradatamente l’esercito in funzione di ordine pubblico, in vista della crisi mondiale ipotizzata.
Da notare la quasi contemporaneità tra lo studio Nato relativo alle operazioni militari di controllo delle aree metropolitane sopra citato e il documento, dall’emblematico titolo di “Rebuilding America’s Defenses” (Ricostruzione delle difese americane), elaborato nel settembre del 2000 dal “Project for a new American Century” (Progetto per un nuovo secolo americano, un centro studi con finalità di gruppo di pressione fondato alla fine degli anni ’90 da alcuni esponenti di spicco del pensiero neoconservatore) che è andato di fatto a costituire la base teorica della linea di politica estera aggressiva perseguita dall’amministrazione Bush.
All’interno di questo programma NATO, l’Italia propone di addestrare personale militare a muoversi in ambienti urbani, anche per padroneggiare impianti di comunicazione e di distribuzione di energia, gas, acqua: un vero e proprio esercito antisommossa e a  presidio dei beni comuni collettivi, espropriati  ieri in via economica, oggi in via militare.
Il sistema di controllo delle popolazioni è alla ricerca di nuove tecnologie operative. Fa parte dello Stato Maggiore dell’esercito Italiano il Reparto Logistico –Progetto Tecnologie Avanzate- che studia sistemi di arma bivalenti letali/non letali, come le bombolette spray  urticanti che possono essere utilizzate contro poche persone o singoli; o i proiettili ad alta deformabilità e ad energia cinetica costante. Tali armi sono state utilizzate dall’esercito italiano in operazioni di guerra “umanitaria” all’estero, in operazioni di polizia e di ordine pubblico (operazione Vespri siciliani), in operazioni antimmigrazione nel controllo delle coste del Salento e in occasione di Summit internazionali (Genova 2001, Pratica di Mare, 2003). Nel quadro di un uso dell’esercito in funzione di ordine pubblico nelle città si sono avuti diversi addestramenti specifici, tra i quali  quello del febbraio 2003 a Cesano (Crisis Response Operation), all’ interno del  secondo corso di “Controllo della folla”.

Il controllo militare delle città e dei siti per infrastrutture e impianti, rappresenta anche il pesante risvolto della logica securitaria (vedi   come esempio, minore ma significativo, le ronde cittadine dei “destri” volontari) e delle nuove forme repressive suscitate dalle cosiddette “emergenze”: energia, rifiuti, approvvigionamenti idrici, infrastrutture lineari  -TAV, autostrade-, “migranti”.
Non è certo utile farci travolgere dal pessimismo, ma la nozione “economia di guerra” può tornare utile per una lettura disincantata di quello che vediamo e viviamo. A cosa allude –almeno sul piano dell’immaginario- se non ad una “economia di guerra”, un sistema che affida al libero mercato (imprese private/ megacooperative) le grandi opere e la gestione dei servizi locali e che, per garantirne la  realizzazione, schiera l’esercito per le strade, nei siti per gli impianti prossimi venturi, sotto i palazzi delle aziende ex municipalizzate (oggi multiutilities)?
Che cosa è se non una “economia di guerra”, quella economia mondo occidentale -alla quale si sono aggregate Cina e India- che ha prodotto in nemmeno duecento anni l’azzeramento relativo delle fonti energetiche fossili e delle materie prime fondamentali, accingendosi a farlo con l’acqua e con la biodiversità, e che  ora in forza della crescita dei prezzi di petrolio, gas, rame, grano non può che usare la guerra per controllare ciò che ormai non sembra più controllabile?

3.4. Oltre la polarizzazione e il “senso comune” conservatore
Mentre appare sempre più evidente la rottura tra comunità e governo, tra agire collettivo e delega, emerge una polarizzazione che da una parte presenta una proliferazione di “conflitti progettuali” nei territori della Metropoli e in quelli rurali del Sud del Mondo -in particolare in America Latina-, una nuova composizione sociale, nuovi bisogni, e, dall’altra, favorisce delirio securitario, forme identitarie  conservatrici, imbarbarimento delle relazioni sociali e umane.  
Non si può non notare come questa polarizzazione attraversi –talvolta in forme sfumate, talvolta in modo più marcato- anche il movimento dei comitati popolari, le comunità resistenti che lottano in difesa dei propri diritti, dei beni comuni collettivi, del bios locale  e planetario.
Con questa affermazione non vogliamo disconoscere la straordinaria importanza e fertilità del movimento dei comitati e delle reti, ma semplicemente sottolineare uno dei nodi che rischia di  bloccare il completo dispiegamento del “conflitto progettuale”.

Dando uno sguardo al quadro delle aggregazioni politiche più o meno organizzate che, negli ultimi anni, hanno sviluppato percorsi di mobilitazione e di coinvolgimento intorno alla tematica della difesa dell’ambiente e dei beni comuni notiamo come, relativamente al rapporto in cui tali strutture di movimento si pongono rispetto al livello politico amministrativo produttore delle scelte contestate, si realizzi una “polarizzazione” delle relazioni “politiche” interne alle collettività in lotta e delle forme organizzative. 
Con i rischi della schematizzazione e semplificando il quadro, possiamo individuare due pratiche e due atteggiamenti  prevalenti.
a) Pratiche ed elaborazioni fondamentalmente conflittuali rispetto al livello decisionale sopra citato; aggregazioni sociali in cui risulta centrale l’importanza dell’assemblea, dei momenti di confronto collettivo (dove a discutere sono soggetti paritari) sia in ordine allo stabilire la propria “agenda politica” che al produrre sapere e apprendimento sociale, rendendo “bene comune” informazioni scientifiche e culturali autoprodotte o frutto di rapporti con tecnici e saperi ufficiali, circa ciò contro cui ci si organizza. Contesti (per citare esempi concreti, il Movimento No tav della Val di Susa, la situazione napoletana: Acerra e Chiaiano, ma anche molte realtà dove i comitati popolari e i loro coordinamenti hanno saputo costruire dimensioni globali di “conflitti progettuali”, o anche il Patto di Mutuo Soccorso), nei quali è la “comunità resistente” ad agire in prima persona, senza la presenza di “corpi separati”, ponendo in essere momenti di mobilitazione il più possibile collettivi.
b) quando la tendenza è a porsi prevalentemente in rapporto interlocutorio con le strutture politico-amministrative, le condizioni che vengono a determinarsi sono completamente diverse, e sostanzialmente subalterne rispetto ad una sorta di logica di concertazione. La ricerca di un referente interno ai luoghi di produzione delle decisioni, nella convinzione che non esista modo di incidere attivamente sulle scelte politiche se non muovendosi tramite tali canali, rende chiara l’interiorizzazione, da parte di questi soggetti, del concetto di delega. Tale processo è espresso anche da una certa tendenza degli stessi a costruire liste civiche in occasione delle consultazioni elettorali (è il caso –ad esempio-  del Comitato contro l’inceneritore di Case Passerini,  Campi Bisenzio (Fi), che già aveva prodotto, nel quadro di forme codificate di partecipazione politica, il referendum tenutosi a Dicembre 2007). A partire da questo sistema di relazioni le caratteristiche dell’approccio sopra citato tendono a riprodursi sia sui percorsi d’iniziativa intrapresi, con l’opzione, per quanto riguarda direttamente il contrasto alle scelte di trasformazione del territorio, di metodi d’azione (quali estesi ricorsi al TAR, alla Magistratura) a ridotto coinvolgimento collettivo e, sul piano dell’analisi scientifica di quanto affrontato, demandando a tecnici vicini alle posizioni del “movimento” l’intervento nelle sedi istituzionali preposte, senza socializzare competenze e allargare conseguentemente la partecipazione alla discussione dei problemi, che sulla struttura interna delle aggregazioni stesse, con l’adozione di figure organizzative (presidente, segretario, cariche in genere ricoperte da soggetti distinti per proprietà di linguaggio o altre “attitudini politiche” ) proprie di strutture associative diverse dai comitati “di base” genericamente intesi.

Un punto su cui focalizzare l’attenzione è il rapporto, il più delle  volte conflittuale (in vari gradi a seconda dell’inasprimento del conflitto e della presenza nelle lotte di istanze così dette “radicali”), tra le popolazioni in lotta e gli apparati del potere “democratico”.
In questo caso si manifesta una contrapposizione generalmente marcata tra la volontà popolare –che spesso rappresenta momenti, magari  parziali  ma sicuramente importanti di democrazia diretta e non mediata- e gli apparati della democrazia formale che dovrebbero –in teoria- rappresentare la volontà degli elettori.
In questi casi la differenza di potenziale tra democrazia formale (istituzionale) e democrazia reale (diretta) si fa netta, da un lato le popolazioni che si appropriano del diritto di decisionalità riguardo alla gestione del territorio, e dall’altro il potere “ufficiale” che vorrebbe avocato a sé ogni ambito della gestione del quotidiano e che si trova a dover affrontare la propria delegittimazione  appellandosi –per assurdo- alla legittimazione ricevuta a mezzo tornata elettorale.
Infine è interessante notare come alcune delle esperienze d’impostazione autogestionaria e autorganizzata,  abbiano maturato, a fianco dell’esperienza quotidiana di condivisione e confronto, anche un elevato grado di elaborazione teorica sia riguardo nuove forme di convivenza e di gestione del quotidiano, che di comprensione dell’interdipendenza di tutte le lotte che si stanno svolgendo oggi nel paese (pensiamo ai movimenti per Rifiuti Zero, contro le devastazioni ambientali, sull’ energia, contro le basi militari e di   morte, in difesa dei beni comuni collettivi ecc…), che riguardo ai rapporti tra devastazioni ambientali/sociali e processi-modi di produzione e di consumo.

E’ necessario, dunque, per l’insieme del movimento,  avviare una riflessione approfondita sul senso ed il significato di queste lotte, delle loro potenzialità e dei loro difetti/limiti al fine di poter giungere alla comprensione delle possibilità più o meno radicali di cambiamento dell’esistente che queste esperienze portano in seno.
La spinta autogestionaria, l’autorganizzazione, la difficoltà che trova il potere nel riassorbire le criticità che questi movimenti innescano e le potenzialità di cambiamento che ne discendono; le capacità che i movimenti hanno di creare sapere condiviso; il palese superamento, in alcuni ambiti, del concetto di democrazia rappresentativa a favore delle pratiche –cariche di potenzialità positiva- di democrazia diretta.

Pistoia, Agosto 2008
Collettivo Liberate gli Orsi, Assemblea ex presidio “Giulio Maccacaro” per la chiusura dell’inceneritore di Montale.

mercoledì, 10 settembre 2008

Buone pratiche di cittadinanza e mutualismo

Settore primario, settore secondario, settore terziario: così le tavole statistiche ancora classificano la distribuzione delle attività e delle occupazioni in un Paese. 
Tutto ciò che non è agricoltura, ciò che non è industria si riversa nella categoria residua del terziario..
Soltanto quando quel settore “residuale” detto terziario è diventato  “centrale” nella struttura della società , si è incominciato a scavare all’interno del grande oceano  dei servizi terziari, distinguendo, precisando, classificando realtà  diverse, opposte, talvolta incompatibili.

Il cosiddetto Terzo settore ( o terzo sistema, o non profit..) condivide invece ancor oggi il destino del  vecchio “terziario” delle statistiche economiche, quello cioè di essere considerato un contenitore generico nel quale si versano alla rinfusa tutte  le pratiche e gli attori sociali che sfuggono ai  consolidati criteri di classificazione dei due principali sistemi d’azione: l’agire amministrativo pubblico e l’azione privata di mercato.
L’impegno principale di analisi e di dibattito sembra ancora concentrarsi  nello sforzo di tracciare le frontiere, non sempre nette , che separano questa area “terza” dallo Stato e dal Mercato.  
E’ recentissimo il contributo diligente  di Alessandro Montebugnoli  rivolto a indicare linee e a rintracciare confini attraverso una “definizione argomentata di Terzo settore”. (1)
Ma ormai è tempo di  inoltrarsi con affilate e non reticenti analisi all’interno del generico recipiente che accoglie le più eterogenee e contraddittorie realtà.
Questa esigenza non discende da una centralità quantitativa  di questo spazio dell’esperienza sociale (pur in continua espansione) ma viene sollecitata soprattutto da scottanti interrogativi politico-culturali intorno al significato e alla valenza che questo fenomeno assume dentro le crisi del presente e all’interno delle prospettive del nostro futuro.
Operando una drastica semplificazione si possono indicare due contrapposte visioni del Terzo settore.
Ambedue concordano in un punto: a monte dell’espansione crescente di questo fenomeno c’è la crisi dirompente e irreversibile del compromesso tra l’industrialismo fordista e lo stato sociale keynesiano, compromesso che ha garantito per molti decenni equilibrio e coesione sociali nei Paesi a capitalismo avanzato d’Occidente.
Gli uni vedono nei diversificati e mobili sviluppi del Terzo settore un processo di accompagnamento e di bilanciamento sociale, temporaneo e occasionale, dello smantellamento del vecchio sistema di garanzie e di protezioni . Interventi di auto-tutela sussidiata, arrangiamenti locali, nuove forme di mobilitazione filantropica dovrebbero contenere e diluire le tensioni  che provengono dalla ristrutturazione liberista dell’economia e dal disimpegno progressivo dello Stato.
Altri invece scorgono, all’interno del Terzo settore, l’emergere di linee di tendenza, di figure sociali, di forme associative, di embrioni di rinnovata democrazia dei corpi intermedi che possono confluire nella  costruzione del progetto di un “nuovo incastro”  a vincoli etici, sociali e politici di una innovata economia  di mercato.
Troppo semplici e lineari le due contrapposte visioni. Il Terzo settore è luogo contraddittorio che ospita dosi fortissime di ambivalenza.
Non è sufficiente tracciare la mappa statistica quantitativa dei raggruppamenti, stilare l’elenco delle loro configurazioni giuridiche,  stendere la classificazione delle aree di intervento, raccogliere le cifre del lavoro dipendente o dell’impegno volontario all’interno del Terzo settore .
E’ necessario andare più a fondo: comprendere le logiche dell’azione sociale che in esso operano e si scontrano occorre fare una indagine qualitativa di ciò che si muove all’interno di questa composita e confusa galassia. 

L’almanacco delle buone pratiche di cittadinanza  2004 (2)  seleziona e raccoglie nelle sue 400 pagine esperienze di intervento  capaci di stimolare una riflessione sulla qualità delle pratiche, sui valori di riferimento e sulle forme associative di chi opera nel cosiddetto terzo settore.
Da questa pubblicazione voglio trarre due spunti concreti che utilizzo per sviluppare argomentazioni di carattere più vasto.    
Prendo avvio dalla bella intervista ai membri  di una cooperativa di tutoraggio di ragazzi in gravi difficoltà in un quartiere degradato di Napoli. L’associazione ha un nome misterioso “ Il tappeto di Iqbal”. L’intervistato spiega che quel nome richiama la vicenda di un piccolo schiavo pachistano ucciso a dodici anni dalla mafia dei tappeti quando ha cercato di organizzare la resistenza alla disumana condizione sua e dei suoi compagni. Il collegamento simbolico tra quell’esperienza così lontana nello spazio e l’azione di sottrazione di ragazzi napoletani alla servitù del circuito camorristico evidenzia una rilevante circolazione globale di informazione ed identificazione all’interno di pratiche sociali e valori condivisi: impegni sociali molecolari molto diffusi ma anche  fittamente interconnessi.
Le buone pratiche di cittadinanza non nascono dal buon cuore ma dall’interazione tra la risposta a bisogni  “locali” e il coinvolgimento nella costellazione di ideali e di esperienze comunicati dalla diffusione dei nuovi movimenti sociali..
La seconda occasione di riflessione l’estraggo dalla ricca intervista a due animatori dell’associazione friulana “Vicini di casa”. 
Gli intervistati anche questa volta prendono il discorso da lontano, ma da lontano nel tempo: “In Friuli ogni paese aveva la sua latteria sociale cooperativa, erede della vecchia esperienza cooperativa cattolica e socialista di fine 800 e inizi 900…”. 
I tempi nuovi hanno travolto quella esperienza rurale che però ha lasciato una eredità di tradizioni culturali e di strutture materiali. Si è deciso di rilanciare quel patrimonio antico per affrontare un problema nuovissimo: offrire agli immigrati una possibilità di  civile inserimento abitativo. Ora l’associazione gestisce l’affitto di  1500 famiglie di immigrati. 
Anche in questo caso la buona pratica che opera nel presente non nasce nel vuoto, ma si alimenta nel sedimento storico della cultura sociale: la attualizza e la rilancia.
Mi pare fondamentale mettere in evidenza questo processo di  doppia riduzione di distanza :  da una parte l’apertura verso uno spazio di cittadinanza “globale”, dall’altra la riattivazione nel tempo presente di ciò che resta vivo  nelle radici del passato “locale”. 
Qui vedo l’originalità e la forza delle forme emergenti della sociabilità. 

Da tempo siamo usciti dal “glorioso trentennio”.
Ma è pigra e lenta la percezione dell’insorgere anche all’interno dell’Occidente (non solo nel “resto del mondo”) di una nuova questione sociale che esige mobilitazione di cultura, grande capacità di invenzione politica ed istituzionale, forte attivismo creativo nella tessitura di trame associative e di legami sociali in progressiva dissoluzione.
Nella questione sociale dei nostri giorni si avvitano sussulti dell’economia, crisi di identità e traumi tecnologici.
Le tecnologie elettroniche e informatiche disintegrano e disperdono le vecchie comunità di lavoro. Delocalizzazioni e ristrutturazioni diffondono insicurezza. L’obsolescenza dei saperi e dei mestieri genera erosione biografica. Nel lavoro sempre più informatizzato la quota di energia psichica e mentale erogata cresce enormemente. Alta competitività nel lavoro, estesa precarietà e crescenti richieste di flessibilità rendono sempre più tesi i rapporti tra costrizioni del lavoro e bisogni della vita. 
Sicuramente l’epicentro del terremoto sociale si colloca. nel colossale processo di destabilizzazione di quel lavoro salariato che era diventato il grande integratore delle nostre società attraverso lo stabile rapporto con l’impresa, mediante l’affermazione di identità collettive sindacalmente e politicamente rappresentate e con  il riconoscimento della propria centralità concretizzato nelle tutele dello Stato sociale. 
Ci troviamo di fronte a un apparente paradosso.
Gli ambiti di lavoro, che sono violentemente ed estesamente  colpiti da insicurezze e disoccupazione, da nuovi vincoli e disagi  non ci appaiono in questo momento come i luoghi della resistenza più significativa, come i contesti delle esperienze sociali e politiche più radicali e innovative.
E’ invece all’interno degli ambiti di vita, all’interno dei processi di riproduzione sociale che le onde lunghe e ruvide degli sconvolgimenti del lavoro sembrano esprimere insorgenze  di risposta, di auto-difesa,  manifestare  fermento critico e propositivo.
Non è difficile cercare e trovare ragioni di queste impreviste dinamiche.
E’ saltata la netta separazione, tipicamente fordista, tra tempo di lavoro visibile e riconosciuto e tempo di non-lavoro come spazio socialmente opaco affidato allo Stato sociale e alla famiglia. . 
Nuovi vissuti di precarietà e di dissociazione dentro i  lavori si sommano con il senso di esclusione  dalle forme ereditate della protezione sociale. 
Si attiva una compenetrazione e una circolarità di tempi e di tensioni tra vita e lavoro e viene  rischiarata a tutto tondo una problematica condizione esistenziale della persona in quanto tale che scardina quella che fu la centralità della mutilata e unilaterale “coscienza del produttore”.
In questa nuova condizione e quando l’ambito di lavoro, con il ribaltamento del paradigma produttivo, diventa il fulcro dell’esperienza della disintegrazione, del disorientamento e della perdita di controllo è ovvio che tentativi di risposta, esperimenti di autodifesa tendano a spostarsi su altri terreni. 
Si può ricordare  che nel tempo delle drammatiche fratture prodotte dal primo industrialismo il mutuo soccorso tra i lavoratori nelle condizioni di esistenza ha preceduto la resistenza sul lavoro. Allora la costruzione di  aggregazioni della solidarietà negli ambiti di vita fu premessa e presupposto delle lotte del lavoro.
Nei primi decenni del secolo scorso il sindacalista francese Victor Renard (3) aveva teorizzato e proposto il “sindacalismo a base multipla”, in sostanza un sindacalismo che fosse in grado di utilizzare la solidarietà mutualistica negli ambiti di vita come leva per rafforzare la coesione rivendicativa nei luoghi di lavoro.
Oggi, quando il lavoro è vulnerato, precarizzato e disperso, non si possono pensare forme di associazionismo mutualistico come itinerario verso la ricostruzione di una capacità di coalizione e di rivendicazione nel lavoro? 
Il sociologo americano Richard Sennett (4)  propone oggi una esperienza che si avvicina a quella del sindacalista Renard e che egli definisce “sindacalismo parallelo”. Il sindacato delle segretarie di Boston e quello dei lavoratori della comunicazione in Gran Bretagna attivano vere e proprie forme di neomutualismo al fine di produrre un vissuto comunitario e di realizzare tutele in un contesto di lavoro frammentato, flessibile e precario. 
Il sindacato dovrebbe apprendere a “fare società”, non limitarsi ad aprire sportelli di servizio. 
Si può ricordare l’esperienza del  lavoratore edile, da sempre emblematica figura della precarietà e  della flessibilità selvaggia  di un lavoro sottomesso alla temporaneità del cantiere che nasce e muore, ai cicli delle stagioni, ai rischi della disoccupazione. Gli edili all’inizio del secolo scorso hanno inventato la Cassa Edile come  istituto di mutualizzazione della precarietà  per la  conquista immediata di garanzie essenziali e come percorso verso la costruzione della coalizione rivendicativa.

E’ improprio leggere i processi sociali in bianco o nero. I movimenti della società si manifestano in chiaro e scuro: insieme a ciò che deperisce  si mescola  quello che sta nascendo.
L’autunno del 1980 può essere assunto come una data emblematica della complessità della metamorfosi sociale.
In quei mesi coincidevano due eventi: la storica sconfitta operaia alla Fiat dopo 35 giorni di lotta e il terremoto dell’Irpinia che attivava una solidarietà operante e positiva di giovani, di lavoratori, di sindacalisti da tutta Italia.
Utilizzando l’immagine secca e provocatoria di Marco Revelli si potrebbe collocare all’interno di questa contraddittoria coincidenza il declino   della tradizionale “militanza” novecentesca e l’emergenza della nuova figura del “volontariato”.
Per lunga tradizione  analisti sociali e  osservatori politici avevano puntato lo sguardo in modo quasi esclusivo sui rapporti di produzione, sulla fabbrica.  
Il senso della transizione storica veniva visto soprattutto in ciò che accadeva, che decadeva nella Fiat di Torino.
Era più difficile alla cultura allora prevalente  percepire la portata di ciò che invece nasceva tra le rovine dei comuni dell’ Irpinia.
Il volontariato si inseriva in quel lato oscuro dell’esperienza sociale che per decenni veniva indicato come mero spazio del “non lavoro”, che faticava ad assurgere alla dignità di “ambiti di vita”, ad essere colto come momento essenziale della “riproduzione sociale”.
Il lato attivo della storia veniva sempre dalla produzione. Nei rapporti di produzione e nei conflitti al loro interno si produceva l’avanzamento sociale e si affermava la democrazia del lavoro 
Consumismo di mercato e sudditanza allo Stato paterno erano  visti come i momenti della passivizzazione, della dipendenza e della integrazione sociali.
Era difficile, nei tempi d’oro del “miracolo” consumista e delle conquiste welfariste, scorgere la presenza di resistenze, di aree di autonomia  nella vita quotidiana  all’interno di una società sempre più pesantemente colonizzata dall’offerta di  mercato e dall’interventismo di Stato. 
Eppure persone, famiglie e  comunità mai sono state completamente inerti,  passive “destinatarie” dei beni delle attività di impresa e dei servizi delle amministrazioni. 
Le fatiche e  le capacità di processare e di adattare i beni e i servizi dell’offerta all’uso per se stessi hanno sempre generato un’area di attività, un corpo di saperi taciti, implacabilmente relegati nel cono d’ombra degli affari domestici e dell’arrangiarsi informale .
Certamente la “rivoluzione silenziosa” delle donne ha costituito la leva principale nel portare alla luce, nel dare valore sociale alla segregata ed oscurata “economia domestica”. 
La rilevanza sociale e politica del lato attivo, competente e propositivo  della “domanda”,  ha avuto accelerazioni soprattutto dentro la crisi del welfare che precipitava sia come ridimensionamento di prestazioni, sia come modalità burocratiche e clientelari  in conflitto con una più esigente ed attiva cittadinanza, sia come rigidità dell’offerta rispetto alla mappa, in rapida  trasformazione,  delle aree e delle forme del disagio e dei bisogni.
Il volontariato, negli anni 80, nasce fortemente orientato alle nuove marginalità: i tossicodipendenti, i senza fissa dimora, gli immigrati, i disabili e i malati di mente. Non si manifesta  come “azione compassionevole” verso i bisognosi, ma come impegno di cittadini attivi volto a rendere esigibili diritti negati ai cittadini deboli. 
La combinazione e l’intreccio del volontariato con movimenti ad obbiettivo specifico, come il pacifismo, l’ambientalismo e l’antirazzismo, creano sinergie che arricchiscono un inedito associazionismo che si colloca ormai all’esterno degli storici e fondamentali corpi intermedi novecenteschi: il sindacato e il partito politico.
Nel 1998 Caillé e Laville nella Presentazione del numero della rivista MAUSS  dedicato all’associazionismo (5) segnalavano una paralizzante divaricazione tra le associazioni.
Da un lato essi indicavano i limiti delle “associazioni spettacolari” capaci di mobilitare episodicamente l’opinione pubblica su temi scottanti come il razzismo, la disoccupazione, la pace, gli immigrati irregolari.
Dall’altra parte mostravano i punti deboli delle associazioni impegnate nell’esercizio silenzioso di pratiche solidaristiche, strette tra la ripetitività dei compiti e la fatica delle mediazioni.
Era l’incapacità di coniugare la produzione di una democrazia d’opinione con pratiche costanti di costruzione di relazioni  che impediva, secondo gli autori, all’associazionismo di diventare protagonista politico visibile e legittimato.
Un anno dopo, nel novembre del 1999, c’è l’evento Seattle: nasce il movimento dei movimenti.
La qualità politica più originale di questo movimento consiste appunto nella sua articolazione a più livelli. Esso si presenta come una “associazione di associazioni” che attiva un doppio movimento.
Dal coinvolgimento di una miriade di raggruppamenti di impegno sociale sorgono grandi mobilitazioni temporanee di opinione. Dal momento dell’incontro e del dibattito di massa fluiscono poi risorse politiche, sociali e cognitive che vanno ad irrigare il reticolo dell’azione specifica quotidiana.
Vediamo operare una dinamica molto diversa dai movimenti sociali tradizionali imprigionati dentro la polarità di stato nascente e di riflusso.(6)
Se si conferma questo rapporto sinergico tra mobilitazione ampia di opinione e costruzione molecolare di reti sociali, forse si esce dalla consueta dialettica tra movimento ed istituzioni per passare al confronto tra  forme stabili e diverse dell’agire politico.
Quelle forme dell’azione sociale che chiamo buone pratiche di cittadinanza indicano soggetti e raggruppamenti che, in qualche modo, interagiscono con il contesto globale in movimento. Inoltre il loro specifico modo d’intervento sociale non resta chiuso all’interno della mera rivendicazione verso l’alto e non opera come semplice  azione di supplenza rispetto a ciò che dall’alto non viene  . 
Esse contengono elementi critici ma tendono a proporre soluzioni. Mentre avanzano proposte sovente  incominciano a realizzarle in proprio. 
Queste nuove forme di intervento sociale cercano di trasformare gli “utenti” passivi di prestazioni  esterne in soggetti capaci di esprimere proprie energie latenti, di riprendere iniziativa e  ritrovare anche limitati ma possibili spazi di autonomia
Sono spinte che tendono a incrinare il nesso assistenza-dipendenza, il  paradigma forte che compatta le esigenze di comando del ceto politico, la volontà di conservazione del ruoli   amministrativi, l’intangibilità dei circuiti di potere-sapere degli esperti.
Esse  rimettono in discussione l’autoreferenzialità delle strutture di welfare, autoreferenzialità che riproduce i processi di fondo della logica delle organizzazioni  tendenti alla divaricazione tra fini dichiarati ( la missione sociale) e i fini reali  (l’autodifesa degli apparati).
E’ severamente vietato agli utenti destinatari di diventare attori sociali proponenti, l’”oggetto” delle pratiche di tutela politico-amministrativa non può pretendere di entrare nella scena pubblica come “soggetto”.
In modo embrionale, implicito e carsico vediamo forse operare dinamiche sociali che vanno ad intaccare quello che è un solido  paradigma d’ordine.
Riprendendo una indicazione dello storico del movimento operaio Edouard  Dolléans ,sembra oggi ritornare l’esigenza  “di precisare il conflitto fra le rivoluzioni di potenza e le rivoluzioni di capacità,  secondo la forte espressione di Proudhon”.(7) 
Da una parte la gestione della società delegata alle macchine politiche, alle tecnocrazie e allo Stato, dall’altra parte il mutamento sociale che cerca le sue risorse principali e prioritarie nell’incremento delle capacità morali e intellettuali dei cittadini e nell’iniziativa costruttiva e realizzatrice  delle libere associazioni. 
Se la sfida delle alternative sociali ha veramente  questo respiro e questa rilevanza, è  difficile però vederle rappresentate nell’attuale dibattito politico ed  ideale.
Un fattore di rimozione e di blocco della discussione viene dall’interno dello stesso “terzo settore”.
In esso operano grandi società di capitale (non profit) che utilizzano personale dipendente per fornire servizi sociali appaltati all’esterno da enti pubblici: l’impresa sociale.
Dall’altra parte abbiamo una galassia di associazioni tra persone  rivolte all’azione solidale di sostegno e di aiuto: il volontariato.
I primi operano per erogare servizi all’utenza sociale, i secondi sono soprattutto impegnati  con i soggetti deboli titolari di diritti sociali elusi o negati.
I primi sono applicati ad agire sui modi, sugli indirizzi, sulle normative di elargizione dell’offerta di prestazioni e di servizi.
I secondi si sentono più impegnati a dare voce, a suscitare capacità di espressione e di influenza nella domanda sociale.
Sono ambiti che esprimono logiche diverse dell’azione sociale.
I vertici  visibili e ascoltati del cosiddetto terzo settore  esprimono una torsione unilaterale della rappresentanza, esercitano soprattutto una sorta di pressione “sindacale” dell’impresa sociale verso i pubblici poteri per sollecitare e captare l’esternalizzazione dei servizi sociali.
La vasta galassia delle buone pratiche di cittadinanza, dell’associazionismo volontario, della cittadinanza attiva non ha rappresentanza propria, visibilità e peso politico. Eppure è da questo lato che vengono gli apporti per un welfare arricchito, rinnovato e partecipato la cui costruzione coincide con una rivitalizzazione democratica della società civile.
La convergenza tra “imprenditori sociali”, apparati politici e burocrazie amministrative, applicati in operazioni di ingegneria sociale e ossessionati dai “costi” dell’offerta sociale,  tende sempre più a far coincidere l’innovazione con il ridimensionamento del Welfare
L’oscuro oggetto del desiderio di tanta parte della classe dirigente italiana ed europea è il modello americano di “conservatorismo compassionevole” e di welfare residuale 
Il prof. Stefano Zamagni è uno studioso cattolico che da anni dedica intelligenza e passione nella ricerca  economica, sociale e storica dei fondamenti di quella che egli chiama una “economia civile” che sia in grado di sfuggire alla stretta delle  ganasce del neo-liberismo e del neo-statalismo.
Egli non ha dubbi nel tracciare netti confini rispetto all’esperienza americana del “capitalismo caritatevole”  dove “un mercato scatenato produce ricchezza e i “ricchi” fanno la “carità” ai poveri, “utilizzando” la società civile (che quindi viene deformata) e le sue organizzazioni (le charities  e le Foundations).”(8)
 Lascia un po’ perplessi l’intento di Zamagni a ricercare nell’ “umanesimo civile” della prima metà del Quattrocento fiorentino il riferimento culturale e sociale per il progetto di una “economia civile” del nostro tempo.   
Personalmente ritengo che per affrontare  l’insorgente  questione sociale le forze politiche e culturali del nostro continente debbono fare i conti, nel bene e nel male, con la peculiarità di un sua esperienza non così lontana: la storia sociale di un’Europa percorsa da 150 anni di vicende del movimento operaio e socialista e da 100 anni di impegno del movimento del cristianesimo sociale.   
E’ all’interno di questa lunga storia che si possono rintracciare contributi di pratiche e di idee che, con alterne fortune, hanno cercato di contenere le  opposte derive del mercatismo individualista e dello statalismo collettivista.
Il filo rosso di questa tradizione, da ripensare e da riattivare, lo ritrovo nell’esperienza del mutualismo.  
Parlando del mutualismo storico penso che non sia opportuno dilatarlo troppo, quasi fosse un sistema complessivo di socialismo mutualista, e neppure  ridurlo alla mera esperienza delle “mutue”.
A  mio avviso il mutualismo realizza una particolare  articolazione di quel principio di  solidarietà  nel quale si concentra e si riassume il contributo morale e pratico del movimento operaio nella storia  dell’Europa del XIX secolo.
La parola “solidarietà” è apparsa sulle testate dei giornali degli operai parigini  durante la rivoluzione del 1848. Essa si è presentata  accanto a quelle di libertà e di uguaglianza ed in sostituzione del termine fraternità.
Fratellanza significa sollecitudine morale all’oblazione dall’alto verso il basso tra diseguali in nome di una comune appartenenza: fratelli in quanto figli di dio, fratelli in quanto figli della patria. Era la parola della carità cristiana e della filantropia massonica.
La solidarietà operaia segna una rottura: esprime un sentimento morale e una disposizione pratica che unisce orizzontalmente gli eguali: uno per tutti, tutti per uno. E’ la presa di coscienza della necessità dell’agire cooperativo da parte di coloro che posseggono soltanto la forza del numero.
La solidarietà ha suscitato e animato la grande e ricchissima fioritura dell’associazionismo nell’Europa della seconda metà dell’800.
Le società di mutuo soccorso furono luogo privilegiato di solidarietà operaia. All’interno della cerchia “privata” dell’associazione il mio dovere di essere solidale con tutti comportava l’obbligo di tutti gli altri di essere solidali verso di me. All’interno di quell’ambito associativo circoscritto i lavoratori, di fronte alle sventure dell’esistenza, hanno cessato di rovinare nella condizione di bisognosi mendicanti per diventare soggetti portatori del diritto al sostegno solidale.
Ma ben più vasto era il ventaglio delle forme della solidarietà operaia.
Il sociologo Roberto Michels (9), nei primi anni del 900, esamina e riflette sulle forme in cui si articola la solidarietà tra i lavoratori. Egli ritiene di tracciare una distinzione importante tra le forme della “solidarietà negativa” che genera coesione contro qualcuno e quelle della “solidarietà positiva” che si alimenta nell’impegno cooperativo per risolvere in proprio, direttamente e dal basso, problemi e difficoltà insorgenti nella vita e nel lavoro. 
La solidarietà negativa prevale nelle coalizioni di “combattimento” del movimento operaio: il sindacato in lotta contro il padrone ,il partito in lotta per il potere nello stato.
Il mutualismo invece rappresentava l’ampia area delle solidarietà positive che puntavano sulle “virtù proprie” del mondo del lavoro: le loro capacità di autogestione, l’esercizio dei loro saperi-taciti nel costruire società, nel fare tecnico e nell’agire  economico. L’ area del  mutualismo comprendeva le società del mutuo soccorso, le cooperative di produzione e di consumo, il credito cooperativo, le case del popolo, i circoli ricreativi, le società di istruzione professionale, le università popolari…
Nell’ esperienza concreta del movimento dei lavoratori esistevano relazioni reciproche e contaminazioni tra militanza sindacale, lotta politica e attivismo mutualistico.
Nel corso del ‘900 ( a partire dalla Prima guerra mondiale) avviene però un radicale mutamento di scenario nella configurazione delle pratiche, delle culture, delle logiche di raggruppamento all’interno della società del lavoro.
Lo sviluppo del capitalismo organizzato cui si contrappone la risposta di un sindacalismo centralizzato e istituzionalizzato, la militarizzazione della politica in una logica di scontro amico-nemico, la progressiva statizzazione della mutualità, tendono ad assolutizzare i momenti e le istituzioni della solidarietà negativa ( sindacati e partiti). Prevale una logica di organizzazione d’apparato, disciplinata e gerarchica, dettata dalla necessità di “combattimento”.
A  questa svolta storica corrisponde il declino, il deperimento del mutualismo inteso come l’area della solidarietà positiva e del pluralismo associativo nel quale si esprimevano le  autonome capacità dei cittadini nell’ affrontare, a partire da se stessi e in modo cooperativo, i problemi e le difficoltà della vita personale e sociale.
E’ forse arbitrario collegare le forme dell’operare e i modi di vivere e di  vedere la società di quanti  oggi sono impegnati nelle buone pratiche di cittadinanza con il patrimonio tutto nostro di quella solidarietà mutualistica che è stata parte tanto importante nella storia sociale del nostro continente?
La solidarietà classista degli operai è nata come solidarietà tra “affini” e “vicini”. Oggi, con l’affermazione della cultura dell’universalità dei diritti fondamentali, essa è evoluta verso una solidarietà civile anche tra i “diversi” e i “lontani”.
Il mutualismo, che è manifestazione organizzata ed attiva delle solidarietà, non rappresenta affatto “l’infanzia” anacronistica e superata del movimento operaio e democratico ma, come rivendica Nadia Urbinati, esso è sostanza della “maturità” democratica contemporanea: “fare insieme per libera scelta, associarsi per uno scopo comune, è quanto di più pubblico e volontario vi possa essere ed esprime la sintesi pratica tra l’eguaglianza come reciprocità… e la libertà come premessa della moralità e della vita politica” (10).
Quando il sistema politico delle oligarchie a base democratica è pericolosamente logorato, quando l’impresa “avida” ed “irresponsabile” tende a spezzare ogni rapporto tra norma etica, regola giuridica e mondo degli affari, il principio del mutualismo si propone come  antidoto vitale ed attuale alle possibili derive della democrazia e alle sfrenate iniquità dell’economia.   
 Pino Ferraris

1) A. Montebugnoli. Le parole per dirlo. Una definizione argomentata di Terzo settore. Relazioni solidali. N.1 maggio-agosto 2005.
2) Redazione di Una città ( a cura di). Almanacco delle buone pratiche di cittadinanza. Fondazione Alfred Lewin, dicembre 2004. 
3) V.Renard, Le syndicalisme à bases multiples, L’humanité,11 gennaio 1908
4) R. Sennett. La cultura del nuovo capitalismo, p.p. 136-137. Il Mulino 2006. 
5) Alain Caillé et Jean-Louis Laville, Une seule solution, l’association ?  Présentation, Revue du MAUSS, n.11, primo semestre 1998.
6)Pino Ferraris, I movimenti ieri ed oggi, Lo Straniero,N.58, aprile 2005.
7) Edouard Dolléans, Storia del movimento operaio, Vol.II. Roma 1948.
8) Stefano Zamagni, Per un’economia civile nonostante Hobbes e Mandeville, Oikonomia n.3, ottobre 2003. 
9) Pino Ferraris, Roberto Michels: l’eclissi della “solidarietà spontanea e volontaria”,        Solidarietà, Parolechiave n.2 1993    
10) Nadia Urbinati, L’anima della democrazia, Una Città N. 129, maggio 20005. 

pubblicato su “Almanacco delle buone pratiche di cittadinanza” Forlì, febbraio 2007
a cura della rivista “Una città”, www.unacitta.it

mercoledì, 10 settembre 2008

PROGETTARE OLTRE IL TFR.

Premessa  
Ferma restando la decisione di battersi contro lo scippo del TFR in favore dei fondi pensione, un’organizzazione sindacale come l’USI che si richiama, unica nel panorama del sindacalismo di base, a principi libertari, federalisti e mutualistici, non può abdicare alla sua alternatività di prospettive e di strategia sociale-sindacale appiattendosi su lotte che, pur giuste nell’immediato e quindi tatticamente,  non hanno quel respiro strategico di alternatività al sistema assistenziale, pubblico e privato. Tale sistema pubblico-privato ha l’obiettivo di assicurare la certezza di percepire TFR e pensione attraverso il baraccone INPS, incrementando la redditività degli stessi mediante il ricorso a pensioni integrative, assicurazioni volontarie e fondi pensione gestiti dai grandi poli assicurativi, bancari  e finanziari con la complicità di partiti e sindacati.

1 – Liberarsi progressivamente dallo stato e dal liberismo.
Le radici sindacaliste rivoluzionarie ed anarcosindacaliste dell’Unione Sindacale Italiana impongono l’avvio dell’organizzazione di pratiche assistenziali, previdenziali, cooperativistiche e mutualistiche che rappresentino per gli iscritti e per i simpatizzanti dell’USI un’ipotesi concreta e alternativa all’attuale sistema assistenziale e previdenziale, capace anche di anticipare quello che dovrebbe essere la società libertaria.
Alla base del di un’organizzazione sindacale come la nostra, due sono i principi che ci uniscono: il mutuo appoggio e la solidarietà fra i lavoratori. 
Ma questi principi possono essere concretizzati anche nelle forme dell’assistenza mutualistica ed in quella previdenziale.

2 –  Ricostituire le casse mutue.
Le casse mutue di cui si è impadronita l’INPS assolvevano storicamente a questa funzione di garanzia reciproca per i lavoratori, ma il fatto che oggi sia  l’INPS ad assicurare questo compito non esclude che non si possano ricostituire delle casse mutue aziendali o comuni a tutti gli iscritti, con funzioni integrative all’assistenza pubblica al pari delle assicurazioni private. La differenza tra casse mutue ed assicurazioni private è evidente: solo con le prime è possibile l’autogestione del fondo comune mutuo che si traduce in capacità progettuale resa concreta da sinergie economiche ed umane con scopi condivisi e sovraindividuali.

3 – Battersi contro il TFR come salario differito.
Come tutti sanno, il TFR è salario differito, ma perché deve essere ancora così?
L’USI deve battersi perché il TFR venga liquidato al lavoratore alla fine di ogni anno oppure investito in progetti di solidarietà sociale e/o di economia alternativa ai quali partecipa personalmente il lavoratore stesso:
In alternativa, il TFR potrebbe essere affidato volontariamente dal lavoratore a fondi etici e mutualistici  ben lontani dalla filosofia dei fondi pensione.

4 – Autogestione della pensione.
Una società sempre più vecchia, come quella italiana, si deve porre oggi o mai più il problema dell’assistenza agli anziani di domani. Nascono sempre meno figli e gli anziani sono necessariamente abbandonati a se stessi in ragione di problemi economici e sociali che sono sotto i nostri occhi. Le case di riposo sono appannaggio di istituzioni religiose che hanno cambiato in “solidarietà sociale” la loro vecchia “carità cristiana” e ad istituzioni pubbliche che espropriano gli anziani della loro casa e della loro pensione per assicurare agli stessi un accompagnamento alla morte in strutture più simili a discariche di rifiuti umani che non a luoghi di cura, di accudimento e di socialità.
Una progettualità diversa interna alla nostra organizzazione consentirebbe, anche grazie al forte radicamento del nostro sindacato nel settore della sanità, di creare strutture assistenziali autogestite destinate non solo a prestare solidarietà nei confronti di portatori di disagio sociale (cittadini stranieri, tossicodipendenti, pazienti psichiatrici od altro) ma anche ad aiutare i compagni ed i lavoratori diventati anziani ad affrontare le difficoltà della vita, la solitudine  e la precarietà economica vivendo una vita comunitaria e collettivizzata dove non si è “vecchi da sbatter via” ma Patrimonio di Esperienza essenziale ed essenziali alla formazione della capacità di analisi e di critica per le nuove generazioni o, magari, anche per imparare un mestiere.

5 – Villaggi metropolitani e non solo
Un’organizzazione sindacale alternativa come la nostra potrebbe essere promotrice anche della costituzione di villaggi ove sia praticata in concreto la solidarietà sociale in strutture dove si integra la vita lavorativa di alcuni con le aspettative di lavoro di altri che sono stati di fatto espulsi dai processi produttivi e sociali (per es. cassa integrati, disoccupati, immigrati, giovani alla ricerca di una prima occupazione  ecc.) in un progetto di socializzazione di  coloro che sono ormai anziani, ma che hanno ancora voglia di pensare, di dire, di fare  e di vivere con gli altri in una comunanza di idee e di metodi.
Tanti sono i compagni che programmano in modo individuale scelte di vita collettiva in tal modo percependo come sia necessario praticare forme alternative di organizzazione della convivenza sociale, rendendosi conto che la prospettiva prossima ventura con pensioni da fame ed assistenza sociale e sanitaria sempre più onerosa sia assolutamente buia.
A differenza delle generazioni che ci hanno preceduto, i nostri figli non saranno in grado di accudirci, come non sarà possibile (e non lo si vorrà) ricorrere a manodopera straniera per “badare” alle incombenze ed alle disgrazie delle vecchiaia.
Se condividiamo questa prospettiva, ciò che proponiamo è solo di progettare insieme e non individualmente al nostro futuro in modo utile e solidale per tutti.

5 – Passare dalle parole ai fatti.
Dopo tanti anni di delega allo Stato è necessario ripensare insieme ed organizzare forme di sostegno reciproco in termini mutualistici e di fatto alternativi alle leggi di mercato e a quelle dell’assistenza e previdenza pubblica che dividono tutti noi in due categorie: quella dei predoni (banche, assicurazioni, sistema sanitario pubblico e privato, case di riposo, organizzazioni cattoliche) e quella dei depredati (anziani e loro famiglie, contribuenti per una vita senza percepire nulla alla fine, pensionati che non arrivano a fine mese, lavoratori stranieri sfruttati, ecc.).
Quello che proponiamo è il mutualismo che è la forma opposta del parassitismo: ognuno porta il proprio contributo ad ausilio degli altri, autogestendo in modo partecipato e consapevole quantomeno la propria residua esistenza quando si è ormai pensionati e quindi liberati dal lavoro.
E’ per queste ragioni che è ormai improrogabile costituire all’interno dell’USI un gruppo di lavoro capace di progettare e rendere concrete forme di mutualismo e di cooperativismo, costituendo reti di solidarietà assistenziale, circoli ricreativi e di socialità, attività autogestite di economia alternativa all’assistenzialismo di stato e alle leggi del libero mercato.

Nota per il lettore disincantato e scettico.
Dobbiamo smetterla di impostare discussioni politiche e sindacali su TFR e pensioni solo sulla percentuale di rendimento del “gruzzolo risparmiato” nelle forme dell’accantonamento INPS o in quello dei fondi pensione!
Possiamo ritornare a parlare e praticare ideali e principi?
E a chi pensa che queste siano balle dove erano questi sapienti della real politik quando sottoscrivevano le superballe dei bonds Parmalat o argentini e rimanevano ammirati da aziende e relativi fondi Enron o affidavano i loro soldi  a banche ed assicurazioni che, come Unipol, si descrivono dalla parte dei lavoratori, ma sono solo imprese private utilizzate per la crescita del capitale dei loro dirigenti o quando si son fatti sfilare sotto il naso i miliardi del “buco” INPS.
Credere e costruire un futuro di egualitarismo, libertà e solidarietà non potrebbe essere meglio?
L’avarizia di ognuno in termini politici è grettezza e reazione e, la povertà vissuta individualmente diviene miseria ma se vissuta in maniera collettiva e con intelligenza si trasforma in ricchezza.
Gino-Sergio-Tiziana

mercoledì, 03 settembre 2008

L’ UNIONE SINDACALE ITALIANA

Ricollegandosi al patrimonio di idee diffuso in Italia dalla Prima Internazionale, l’USI nacque a Modena nel 1912 rinsaldando le file organizzative del sindacalismo rivoluzionario sorto all’indomani del primo sciopero nazionale in Italia nel 1904. Si contrapponeva alla Confederazione Generale del Lavoro per la sua politica rivoluzionaria, per il rifiuto di contatti con qualsiasi partito politico, per la sua volontà di organizzare anche i lavoratori non qualificati, per il rifiuto dei patteggiamenti con lo Stato (rifiuto della legislazione sociale e dei lavori pubblici), per i metodi di lotta basati sull’azione diretta e la non esclusione della violenza.

All’USI aderirono principalmente delle camere del lavoro situate nel triangolo industriale del Nord (Torino-Milano-Liguria), in Emilia, in Toscana e nelle Puglie. Organizzò soprattutto dei metalmeccanici, dei muratori, dei minatori, dei contadini e dei giornalieri. Durante i suoi primi anni di vita l’organizzazione fu impegnata in una serie di lotte tendenti a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei proletari, senza mai trascurare l’impegno antimilitarista che la caratterizzerà nel corso di tutta la sua storia. Nel 1913 riuscì a fare concorrenza al sindacato socialista riformista scavalcandolo per numero di affiliati in certi settori come la metallurgia. Contro il sindacalismo riformista, organizzato per federazioni di mestiere, cercò di promuovere un sindacalismo d’industria, più adatto per organizzare tutti i lavoratori di una fabbrica senza distinzione di qualifica. In questa ottica condusse lotte importanti e vittoriose alla Fiat di Torino.

Alla vigilia del primo conflitto mondiale fu attraversata, come le altre organizzazioni della sinistra, dal ciclone dell’interventismo. Espulsi coloro che, al suo interno, si erano schierati per l’intervento militare dell’Italia contro l’Austria e la Germania (Alceste De Ambris, Filippo Corridoni e, in un primo tempo, Giuseppe Di Vittorio), l’USI continuò, sotto l’impulso di militanti anarchici quali Armando Borghi e Meschi, a propagandare coerentemente l’antimilitarismo. A guerra conclusa, nel corso delle lotte che portarono il paese molto vicino alla rivoluzione sociale e che vide l’USI in prima fila nell’organizzazione dell’occupazione delle fabbriche (in special modo in Liguria), l’organizzazione raggiunse la sua massima consistenza numerica (circa mezzo milione di iscritti), ma non eguagliò più l’influenza che esercitò nell’anteguerra. Dopo aver avuto rapporti con l’Internazionale rossa di Mosca, finì con l’aderire, alla fine del 1922, all’AIT (Associazione Internazionale dei Lavoratori) cui è affiliata la maggior parte dei sindacati autogestionari esistenti a livello mondiale.

Negli anni venti si oppose al fascismo insieme agli arditi del popolo in una lotta che culminò nella Battaglia di Parma del 1922.

Soppressa nel 1925 dal regime fascista, l’USI-AIT continuò a vivere nell’esilio e nella clandestinità, partecipando alla guerra civile spagnola in appoggio al sindacato CNT-AIT e, attraverso l’impegno dei suoi militanti, alla resistenza antifascista. Nel secondo dopoguerra, con l’avvento della repubblica, coloro che avevano militato nell’USI rinunciarono, inizialmente e su pressione della FAI, a ricostituirla, per collaborare invece alla costruzione del sindacato unitario CGIL. Solo nel 1950, con la rottura dell’unità sindacale, alcuni di loro ricostituirono l’USI-AIT che però, fino alla fine degli anni sessanta, fu realmente attiva solo in poche regioni italiane. Nel corso degli ultimi trent’anni, attraverso numerose traversie, l’organizzazione è stata faticosamente riattivata.

Oggi l’USI-AIT si presenta come sindacato autogestionario, che si caratterizza per la struttura organizzativa libertaria e federalista (sindacato autogestito), per il suo impegno a favore dell’autorganizzazione dei lavoratori (alla quale, ogni qualvolta è possibile, non intende sostituirsi), per la prospettiva in cui si muove, che rimane quella della costruzione di una società socialista e libertaria.

Tra i suoi obiettivi principali figurano la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, un reddito minimo garantito per i disoccupati, la difesa della sanità, dell’istruzione e della previdenza pubblica, la smilitarizzazione del paese.

lunedì, 09 agosto 2004

Incipit testata

…”Nel frattempo ci sono Compagni che per motivi diversi o per avversione quotidiana a  questa società sì son ritrovati a lavorare in proprio in settori diversi, dall’agricoltura ai servizi e per necessità di sopravvivenza il loro lavoro viene ugualmente venduto al Capitale, mentre altri Compagni sempre per sopravvivere sono costretti a comprare dal Capitale, magari, le stesse cose che quegl’altri Compagni hanno prodotto, tutta l’operazione ha un aggravio di costi tutto a beneficio del Capitale.”…

mercoledì, 07 luglio 2004

Chi Siamo

Immagine attiva

questi siamo!

Abbiamo attivato questo sito internet con lo scopo di fornire uno strumento importante di collegamento per chi sperimenta percorsi di autogestione.

Importante segnalare lo spazio – “le nostre pagine gialle” – una rubrica di annunci divisi in varie categorie per facilitare contatti tra chi scambia, chi cerca e chi offre e magari per costruire qualcosa insieme, collegare in tempo reale produttori e gruppi d’acquisto dando la possibilità anche ai singoli individui di collegarsi ad una rete e non essere più isolati.

Stiamo lavorando per costruire l’alternativa all’economia capitalistica, la scommessa che necessita vincere per garantire un futuro al Pianeta.      

Gino Ancona

sabato, 12 giugno 2004

Benvenuto sul sito di Arti & Mestieri

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Puoi sapere in tempo reale anche le novità sugli annunci tramite i Feed RSS che trovi in ogni categoria a lato della descrizione.

mercoledì, 12 maggio 2004

Cosa sono queste pagine gialle?

Le Pagine Gialle di Arti & Mestieri funzionano come una classica rubrica di annunci (offerte/richieste) dove reperire nominativi (personali, cooperative, artigiani, professionisti ecc.) che cercano e/o offrono prodotti, capacità, mestieri, servizi, aiuto ecc. all’interno di un circuito virtuoso di approccio antiautoritario e non speculativo.

L’intento è di creare un “mercato” alternativo che possa sottrarre risorse e denaro al capitale e che invece vengano redistribuiti in quei circuiti e a quelle persone che per motivi politici, sociali e personali tentano ogni giorno di costruire un “mondo nuovo”.

Qual’è l’affidibilità di questi annunci?

L’affidabilità degli annunci è relativa all’affidibilità delle persone (compagni e non) che l’inseriscono, la redazione del portale presterà la massima viglinza affinche non vi siano furbi che approfittino di questo spazio per veicolare le logiche del capitale e dello stato (massimo profitto, sfruttamento, imbrogli, speculazioni ecc.).

Essendo realizzato da anarchici anche il metodo di funzionamento è inteso nella migliore tradizione libertaria ovvero “l’autogestione” pertanto tutti noi siamo i più giusti valutatori di quanto pubblicato e delle successive relazioni.

A  breve verrà implementato un servizio di feedback di modo che tutti possano lasciare un riscontro (positivo/negativo) dei rapporti intercorsi.

E’ possibile acquistare direttamente eventuali prodotti e servizi?

NO, le relazioni commerciali e non sono gestite fuori dal portale, noi facciamo da coordinatori di offerte e richieste .

Come si accede al portale?

Basta registrarsi e diventare utente, in questo modo sarà possibile  inserire gli annunci evenire in possesso del contatto interessato. La consultazione è invece libera e accessibile a chiunque.