10/11 GENNAIO 2009 A PISTOIA
DALLE COMUNITA’ RESISTENTI ALLA SOVRANITA’ TERRITORIALE DAL BASSO PER LA MESSA IN COMUNE
Appello per un Incontro Nazionale delle comunità resistenti, dei comitati popolari, delle reti.
Due giorni di confronto, crescita collettiva, proposte operative
Da più parti si sente l’esigenza di costruire quella che potremmo chiamare una grande Assise nazionale delle comunità resistenti, dei comitati popolari, delle realtà impegnate contro le precarietà: del lavoro, dell’ esistenza, dell’ abitare, dei beni comuni.
Con quest’Appello vi proponiamo un incontro di confronto, di crescita ed eventualmente di costruzione di iniziative comuni, da tenersi a Pistoia 10/11 GENNAIO 2009 A PISTOIA. Un incontro da intendersi anche come una delle possibili tappe verso un’auspicabile Assise/Stati generali dei movimenti sociali.
Un invito rivolto all’insieme vasto ed eterogeneo del movimento contro le nocività, le devastazioni del territorio, la guerra permanente e le basi, contro le precarietà, contro le privatizzazioni e le liberalizzazioni dei servizi sociali e locali, contro l’ aumento di prezzi e tariffe; a difesa della salute e dei beni ecologici, storici e sociali fondamentali e per la loro messa in comune. Un invito rivolto ai migranti, ai movimenti rurali che lottano a difesa della biodiversità, per opporsi alla vendita delle terre demaniali e collettive e per il diritto di demanialità civica, alle associazioni, alle tante resistenze e ai soggetti sfruttati nel lavoro riproduttivo e di cura (le donne al primo posto), nel lavoro e nel lavoro cognitivo, ai sindacati di base (Cub, Cobas, RdB, Sincobas, Slai cobas, Usi), ai lavoratori dei servizi, della scuola e dell’ università.
Un incontro che vuole essere aperto alle diverse istanze, nel rispetto e nell’ accettazione dei differenti percorsi, delle diverse esperienze, dei molteplici approcci, ma anche nella consapevolezza che sono indispensabili ed urgenti l’ avvio di un processo di ripotenziamento e il passaggio dalle resistenze alla costituzione di “sovranità territoriali” dal basso, fondate sulla reale autonomia dei soggetti sociali, per la messa in comune dei beni ecologici, storici, sociali.
Una parte dell’Appello contiene materiali preparatori per la discussione ed il confronto, certamente parziali e non esaurienti. ( pg. 4 e seguenti ). Ci scusiamo in anticipo per la lunghezza del contributo.
1. Vi proponiamo questo Appello partendo dalla nostra esperienza di “conflitto progettuale”. Un’esperienza maturata nel recente ciclo di lotte sviluppatesi in Toscana in difesa della salute, contro le devastazioni del territorio, le nocività ambientali, l’incenerimento dei rifiuti e in favore della strategia Rifiuti Zero, contro la mercificazione di acqua, terre, energia, biodiversità; contro la centralità della combustione, compresa la combustione delle biomasse, inclusi i rifiuti biodegradabili e il business degli agrocombustibili; contro la liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi locali, contro l’aumento di prezzi e tariffe (in particolare contro la vergogna dei CIP 6 che paghiamo nella bolletta elettrica per finanziare inceneritori e petrolieri; e per la riduzione della TIA); contro le basi, fino all’ esperienza del Presidio “Giulio Maccacaro” per la chiusura dell’ inceneritore di Montale (PT).
Invitiamo ad un confronto ancorato alla concretezza, ivi comprese le proposte alternative maturate nel movimento, i comitati popolari, le reti, le associazioni, i rurali, i sindacati di base, i migranti, le realtà che fanno parte del Patto di Mutuo Soccorso; le comunità resistenti a partire da NO Tav Val di Susa e Mugello, da Vicenza ( No Ederle e No Dal Molin), dalla Campania (Acerra, Chiaiano, Napoli, Caserta, Serre, Salerno), dalla Calabria; le Reti nazionali ( Rifiuti Zero, No centrali, Movimento italiano dell’ acqua, Rete comitati per la difesa del territorio e del paesaggio, Foro Contadino, Ecovillaggi, CIR, Medici per l’ Ambiente); i movimenti di lotta per la casa; le realtà che si oppongono alle basi militari (Aviano, Camp Darby, Sardegna, Porto di Napoli, Novara); le comunità interessate dai siti per le scorie nucleari a cominciare dall’ inaccettabile proposta del sito unico nazionale; le lotte contro la precarietà del lavoro; le lotte dei migranti contro lo sfruttamento, il lavoro nero, la criminalizzazione e il rimpatrio; le realtà resistenti nel mondo del lavoro, in particolare: ferrovieri, Breda, Enel, Aziende multiutilities: gas, acqua (Publiacqua toscana, ad esempio), rifiuti; mobilitazioni contro il pacchetto sicurezza, contro la distruzione del welfare e dei servizi pubblici, contro l’ abolizione del contratto nazionale di lavoro; contro i soldati in città e a presidio dei siti di impianti nocivi ( discariche, inceneritori, rigassificatori, TAV).
Partiamo dalla consapevolezza che è necessario, per l’ insieme del movimento, avviare una riflessione approfondita sul senso e sul significato delle lotte e dei conflitti progettuali in atto, sulle loro potenzialità e sui loro difetti/limiti al fine di poter giungere alla comprensione delle possibilità più o meno radicali di cambiamento dell’esistente che queste esperienze portano in seno: la spinta autogestionaria, l’ autorganizzazione, la difesa dell’ autonomia dei soggetti sociali e delle comunità resistenti, la difficoltà che trova il potere nel riassorbire le criticità che questi movimenti innescano e le potenzialità di cambiamento che ne discendono; le capacità che i movimenti hanno di creare sapere condiviso; il palese superamento, in alcuni ambiti, del concetto di democrazia rappresentativa a favore delle pratiche –cariche di potenzialità positiva- di democrazia diretta.
Per rispondere alle sfide che ci pongono l’instabilità strutturale della globalizzazione neoliberista, la nuova estesa e distruttiva infrastrutturazione del territorio, la recessione economica mondiale, il controllo militare delle città e dei siti degli impianti nocivi (discariche, inceneritori, rigassificatori, Tav, basi) occorre avviare un processo di ripotenziamento e rafforzamento, facendo tesoro delle potenzialità e delle esperienze dei movimenti urbani e rurali, dei comitati popolari e delle reti, e cercando di costruire il passaggio dalle resistenze alla sovranità territoriale fondata sulla reale autonomia dei movimenti e sulla sua difesa.
L’obiettivo del rafforzamento dei conflitti progettuali esistenti potrebbe essere avviato nella costruzione di una griglia concettuale efficace poggiata su istanze strategiche e non solo –ma anche- vertenziali, attraverso rinnovate tipologie di intervento, nella consapevolezza di essere portatori di interessi generali e planetari (energia, materia, beni ecologici fondamentali, salute, socialità).
Fa parte di questo processo la costruzione di nuove alleanze tra conflitti in difesa dei beni comuni collettivi, conflitti nella riproduzione, conflitti dei lavoratori, dei lavoratori migranti, contro fabbriche ed impianti nocivi, contro le precarietà, in un legame stretto tra lotte ambientali/difesa della salute/ lotte del lavoro ed economiche.
Proponiamo due giorni di confronto su:
a) comunità resistenti e conflitti sul territorio. Nuove sfide poste dall’instabilità strutturale della globalizzazione neoliberista, dalla crisi energetica e alimentare, dalla dissuasione alle resistenze e alle proposte alternative attraverso il controllo militare delle città e dei siti;
b) dalle resistenze, alla riappropriazione, alla sovranità territoriale dal basso. Ripotenziamento dei conflitti progettuali: superamento della forma stakeholder e delle posizioni identitarie e securitarie; messa in comune e assunzione del paradigma bioeconomico;
2. Come ci appaiono i territori della Metropoli?
Sono i territori della devastazione delle relazioni sociali e dell’ambiente naturale, antropico, costruito; delle precarietà del lavoro e dell’esistenza; delle morti per malattie (in particolari tumori) provocate da cicli industriali nocivi e dall’agricoltura industriale basata sulla chimica di sintesi; i territori della sottomissione alla valorizzazione economica e al mercato dei beni ecologici, sociali e storici fondamentali e dei servizi pubblici-collettivi ( beni comuni).
Sono le nuove modalità di comando che costituiscono le geografie della globalizzazione neoliberista: nuove forme di colonialismo e di sfruttamento generalizzato e planetario della riproduzione, della forza lavoro e dell’intelligenza dei lavoratori e dei lavoratori migranti; ritorno, con modalità rinnovate, di un’ “antica” forma di accumulazione per espropriazione ( D. Harvey ) : terre, beni ecologici collettivi fondamentali come acqua, fonti energetiche non riproducibili, semi, genoma, saperi e sapienze tradizionali delle comunità urbane e rurali; nuove forme di sfruttamento ad opera del “capitalismo cognitivo” e importanza delle forme lavorative con al centro il sapere e la conoscenza; città e territorio quale immediata valorizzazione capitalistica; sfruttamento esteso dei territori rurali che sono l’ altra faccia della Metropoli, il suo imprescindibile altro, nei termini di approvvigionamenti agricoli, di biodiversità, di sociodiversità, di antiche modalità di uso della Natura e di agricoltura organica (contadini del Sud del mondo, ma anche del Nord).
3. Ricchezze e potenzialità dei comitati popolari e delle comunità resistenti
Le diffuse resistenze al modello neoliberista nocivo e devastante del Capitale globale -che ha assunto da tempo la forma di potere sul bios inteso sia come corpo sociale, che come beni ecologici collettivi e loro relazioni- contro le nocività, le nuove infrastrutture lineari e puntuali funzionali al profitto e alla modernizzazione del sistema economico ma non al benessere ed ai bisogni delle popolazioni, contro l’aumento di prezzi e di tariffe, hanno prodotto una ricca eterogeneità che ha dato luogo all’importante movimento dei comitati e delle comunità. Una estesa accumulazione di esperienze, di resistenze, di sapienze, saperi, conoscenze, di pratiche vincenti. Realtà che hanno saputo dar vita a molteplici conflitti progettuali (vale a dire conflitti capaci di costruire anche proposte alternative concrete, non banali e qualche volta complessive).
4. Ripotenziamento e rafforzamento del movimento
E’ certamente vero che i conflitti progettuali in atto definiscono nuove possibilità e nuove potenzialità e alludono alla volontà di costituzione sia di altri quadri di vita, che di soggettività realmente autonome capaci di trasformazione sociale verso nuove relazioni tra uomo/donna –natura– società, verso la messa in comune.
Si tratta di opporci con rinnovate capacità e determinazione ai processi di deterritorializzazione prodotti dal Capitale globale e contemporaneamente avviare processi collettivi di riterritorializzazione, verso una reale autonoma sovranità territoriale che costruisca nuove forme di socialità e metta in comune saperi, città, spazi sociali, beni ecologici e storici fondamentali, a cominciare dai beni da collocare fuori dal mercato.
La moltiplicazione dei conflitti sociali, delle resistenze e delle proposte alternative, sembra ubbidire alla logica della frammentazione, in assonanza con la frammentazione della Metropoli. Ridurre questa frammentazione, “impone” al movimento dei comitati popolari e delle reti un adeguamento strutturale.
In questa direzione si tratta di superare la logica della perdente contrapposizione spontaneismo/organizzazione-coordinamento.
Per fare questo è decisivo apprendere dalle lotte e dalle proposte alternative del movimento rurale, delle popolazioni contadine del Sud del mondo, in particolare del Centro e Sud America, che per prime e con maggior chiarezza si sono opposte al “biopotere” capitalistico.
Diventa quindi strategico attivare originali relazioni dal basso tra movimenti della Metropoli e movimenti e comunità dei territori rurali.
Dall’interno dell’esperienza delle comunità resistenti e dei conflitti progettuali, quindi con un atteggiamento critico che è anche autocritico essendone soggetti attivi, nei materiali preparatori che seguono proviamo a dare una lettura dei processi in atto e a dare qualche indicazione parziale e certamente insufficiente su come il processo di ripotenziamento e il passaggio dalle resistenze alla costituzione di sovranità (alimentare, territoriale) debbano passare per l’evoluzione e/o per l’ abbandono di due forme costitutive che caratterizzano e limitano in particolare i comitati popolari (logica securitaria e forma stakeholder), e dalla assunzione del paradigma bioeconomico e della messa in comune, quali orizzonti del movimento presente e a venire.
Non vogliamo certamente disconoscere la straordinaria importanza e fertilità del movimento dei comitati e delle reti, ma semplicemente sottolineare alcuni nodi che rischiano di bloccare il completo dispiegamento dei “conflitti progettuali”.
proposta di organizzazione dell’ incontro
L’ incontro si tiene a Pistoia nei giorni di Sabato 25 e Domenica 26 Ottobre 2008.
Prima giornata Sabato 25 Ottobre ore 14/19
Breve presentazione delle ragioni dell’incontro.
Comunità resistenti e conflitti sul territorio. Nuove sfide poste dall’instabilità strutturale della globalizzazione neoliberista, dalla crisi energetica e alimentare, dalla dissuasione alle resistenze e alle proposte alternative attraverso il controllo militare delle città e dei siti;
Seconda giornata Domenica 26 Ottobre ore 9/14
Dalle resistenze, alla riappropriazione, alla sovranità territoriale dal basso. Ripotenziamento dei conflitti progettuali: superamento della forma stakeholder e delle posizioni identitarie e securitarie; messa in comune e assunzione del paradigma bioeconomico;
ore 15/ 18 discussione plenaria e stesura di un testo comune condiviso
L’incontro avrà carattere assembleare. Saranno formati eventuali gruppi di lavoro
Collettivo liberate gli Orsi, Pistoia e Assemblea ex Presidio “Giulio Maccacaro” per la chiusura dell’inceneritore di Montale
Sono garantiti cibo e pernotto.
Riferimenti per informazioni e comunicazioni
Fabrizio: 0573.29.720, faber.b@libero.it – Francesco: f.scire1@libero.it, 333.91.10.255 – Marco: pistoianarchica@gmail.com – Roberto: icrob@libero.it, 338.73.34.659
1. Instabilità strutturale, ricchezze e potenzialità dei conflitti progettuali
Il Capitale globale sembra incapace di costruire un ordine adeguato all’instabile sistema di relazioni sociali da esso stesso costruito, tanto che il suo obiettivo più o meno consapevole potrebbe essere piuttosto la creazione di una forma di caos permanente, rispetto al quale rimodellare in continuazione nuove forme di comando. Il caos abita i territori, le città, le relazioni produttive, sociali, territoriali.
L’attuale recessione economica mondiale e le difficoltà del neoliberismo in campo economico, sociale, ambientale, sono caratterizzate da una pluralità di fattori d’instabilità strutturale: crisi energetica, crisi alimentare, guerre per il controllo geopolitico di territori strategici, crisi della Metropoli quale sistema insediativo ad alta dissipazione energetica e sociale.
Si tratta di una recessione di dimensione planetaria. Tra le diverse cause che la alimentano, gli attuali costi delle fonti energetiche convenzionali e la scarsità relativa, con rischio di esaurimento, di alcune materie prime e delle fonti energetiche fossili innescano uno stato di crisi economica globale e di “guerra permanente” per il controllo di territori strategici: vedi la guerra nel Golfo, l’attuale grave situazione di crisi politico-militare nell’area del Caucaso: Georgia e Federazione Russa, Ossezia del Sud e Abkhazia, e poi Iran, Iraq, Pakistan, Afghanistan, dentro una tensione geopolitica legata al controllo di combustibili fossili, oleodotti, gasdotti, posizionamento di basi militari e dei missili intercettatori (vedi il recente accordo USA-Polonia).
Relativamente all’energia e all’uso integrato di fonti non rinnovabili e rinnovabili, si pone la necessità di una transizione energetica verso l’uso esteso delle fonti rinnovabili; circostanza della quale il sistema economico e gli Stati egemoni dovrebbero prendere atto, invece di cercare rimedi inefficaci.
Uno di questi falsi rimedi è il rilancio dell energia nucleare (l’atomo di pace!), una tecnologia vecchia ed inaffidabile che non ha risolto i problemi legati al ciclo dell’uranio: confinamento delle scorie, rilasci di gestione pericolosi per la salute umana e per l’ambiente, possibilità di incidenti di medio-grande impatto (vedi i recenti numerosi incidenti nelle centrali nucleari in Francia), rischi di proliferazione. Inoltre il costo di costruzione delle centrali nucleari, di estrazione e di trattamento dell’uranio, di confinamento delle scorie è talmente alto che il Kwh nucleare è ancora oggi molto più costoso di quello convenzionale.
Un secondo rimedio inefficace e dagli effetti economici dannosi per la collettività, è l’utilizzo su larga scala della combustione delle biomasse, ivi compresa la combustione dei rifiuti cosiddetti biodegrabili e degli agrocombustibili. Il Capitale globale si è da qualche tempo gettato sulla produzione e la commercializzazione degli agrocombustibili.
In particolare si tratta degli interessi convergenti di quattro formidabili corporazioni transnazionali: petrolifere ed energetiche, quelle che controllano il mercato agricolo e delle sementi transgeniche, grandi imprese automobilistiche e di trasporto, banche e finanza mondiale.
Gli agrocombustibili – secondo Miguel Altieri esperto di agroecologia dell’ Università di Berkeley – sono la forma più avanzata, insieme agli Ogm, di un nuovo “imperialismo ecologico”.
La terra e i semi sono i fondamenti dei sistemi agrari e della sovranità alimentare. Il Capitale globale tende a ridurre e a marginalizzare le dinamiche di approvvigionamento informale: risemina, scambio o vendita tra contadini: tutte modalità di scambio vantaggiose per i campesinos e per le comunità locali. Per queste ragioni il Capitale globale tende a controllare i semi, sia in termini di mercato, che in termini di varietà su cui avanzare diritti di proprietà. Gli Ogm sono strumentali a questa doppia strategia: privativa brevettale e marketing aggressivo.
Si tratta di due aspetti centrali dell’ instabilità strutturale: crisi energetica e crisi alimentare.
Le due crisi descrivono bene un modello di produzione-consumo e di abitare che sta collassando e si va esaurendo: l’intensità energetica dello sviluppo, la produzione di enormi quantitativi di rifiuti industriali ed urbani, le nocività dei cicli produttivi e i disastri ambientali, le morti per cancro indotto dalle nocività, le morti per fame, le logiche della finanza neoliberista esportati nei paesi poveri da FMI e Banca Mondiale attraverso le politiche di aggiustamento strutturale, miseramente fallite dopo aver distrutto paesi e popolazioni del Sud.
La necessaria transizione energetica verso le energie veramente rinnovabili, diventa per il sistema economico dominante soltanto una strada tra le altre –spesso residuale- per non dipendere dal petrolio e dal gas naturale di paesi instabili od ostili.
In realtà siamo al tramonto di un’epoca dominata dallo sviluppo e da un trend pressoché costante di crescita economica. Il sistema socio-economico dominante non regge più. Non volendo affrontare gli inevitabili cambiamenti strutturali nell’uso dei beni naturali, nei cicli produttivi e nei rapporti sociali, esso è costretto a cercare risposte nella “guerra permanente”, nella proliferazione di leggi spesso contraddittorie e inefficaci, nell’uso dell’ esercito e della polizia per consentire la realizzazione di infrastrutture ed impianti necessari a continuare lo sviluppo, ma che portano, invece, al collasso i diversi contesti sociali, ambientali, insediativi.
Tra questi fattori d’instabilità strutturale, giova ricordare il carattere del nuovo processo inflativo in atto, nel quale la finanza assume un ruolo strategico nella distribuzione della ricchezza, gestendo e speculando sulle materie prime energetiche ed alimentari (comprese quelle bio-ecologiche) e producendo effetti a catena su una parte rilevante dei cicli produttivi, secondo l’instabilità dei prezzi trainati dalla speculazione finanziaria su materie prime energetiche, alimentari, di base. Basti pensare all’aumento e poi al repentino crollo dei prezzi dei combustibili fossili, del rame, del frumento, di riso e granturco. Una fluttuazione dovuta al gioco finanziario dello spostamento di investimenti dai titoli travolti dalla crisi immobiliare legata al mancato rientro dei mutui (specie negli U.S.A.), ai titoli legati al petrolio e alle materie prime anche alimentari (prodotti alimentari la cui produzione, nel frattempo, è entrata in concorrenza con quella degli agrocombustibili, specie in Centro e Sud America).
L’attuale recessione economica mondiale non implica la liquidazione -in ogni caso auspicabile- della globalizzazione neoliberista, ne descrive piuttosto una possibile evoluzione nella direzione di un nuovo assetto economico e politico: ridotto ruolo del WTO, della Banca Mondiale, del FMI, in favore di altri centri del comando.
Il Capitale globale modifica le proprie gerarchie mentre costruisce nuove divisioni internazionali del lavoro, nuovi sfruttamenti della forza lavoro e dell’ intelligenza migrante, nel tentativo di rendere il caos elemento costitutivo di un nuovo ordinamento sociale, o farne, viceversa, forma permanente della propria costituzione materiale e simbolica.
Le diffuse resistenze al modello neoliberista nocivo e devastante del Capitale globale -che ha assunto da tempo la forma di potere sul bios inteso sia come corpo sociale, che come beni ecologici collettivi e loro relazioni- si sono positivamente dispiegate contro le grandi corporazioni che decidono le dinamiche dell’economia mondiale e gli assetti socio-territoriali e hanno cercato di costruire nuove alleanze sociali e originali forme di coordinamento.
I conflitti progettuali in atto definiscono nuove possibilità e nuove potenzialità e alludono alla volontà di costituzione sia di altri quadri di vita, che di soggettività realmente autonome capaci di trasformazione sociale verso nuove relazioni tra uomo/donna –natura– società.
La moltiplicazione dei conflitti sociali, delle resistenze e delle proposte alternative, sembra ubbidire alla logica della frammentazione, in assonanza con la frammentazione della Metropoli.
E tuttavia è nella Metropoli (nelle città vive oggi più della metà della popolazione mondiale) luogo di produzione materiale e immateriale, di accumulazione di nocività, di nuove forme di espropriazione ed essa stessa immediatamente valorizzazione capitalistica, che si rendono possibili processi di riappropriazione e di liberazione.
I territori rurali sono l’altra faccia della Metropoli, il suo imprescindibile altro, in termini di approvvigionamenti agricoli, di biodiversità, di sociodiversità, di antiche modalità di uso della Natura e di agricoltura organica (contadini del Sud del mondo, ma anche occidentali).
Tutto questo “impone” al movimento dei comitati popolari e delle reti un adeguamento strutturale, se solo si vogliono rendere coerenti con il cambiamento delle relazioni sociali e di queste con l’ ambiente naturale, antropico, costruito i tanti “conflitti progettuali” presenti nei territori.
Per fare questo è importante apprendere, non sembri un paradosso, dalle lotte e dalle proposte alternative del movimento rurale, delle popolazioni contadine del Sud del mondo, in particolare del Centro e Sud America, che per prime e con maggior chiarezza si sono opposte al “biopotere” capitalistico.
Diventa quindi strategico attivare originali relazioni dal basso tra movimenti della Metropoli e movimenti e comunità dei territori rurali.
Occorre partire dalle potenzialità del movimento, avviare processi diversificati di ripotenziamento e di rafforzamento dei movimenti urbani e rurali, dei comitati popolari e delle reti, costruendo il passaggio dalle comunità resistenti alla sovranità territoriale fondata sulla reale autonomia dei movimenti e sulla sua difesa.
Non si parte da zero. Al contrario: si parte da una straordinaria ed estesa accumulazione di esperienze, di resistenze, di sapienze, saperi, conoscenze, di pratiche vincenti (Accumulazione di potenza).
Detto altrimenti si tratta di opporci con rinnovata capacità ai processi di deterritorializzazione prodotti dal Capitale globale e contemporaneamente avviare processi collettivi di riterritorializzazione, verso una reale autonoma sovranità territoriale che costruisca nuove forme di socialità e metta in comune saperi, città, spazi sociali, beni ecologici e storici fondamentali, a cominciare dai beni da collocare fuori dal mercato.
In questa direzione si tratta di superare la logica della perdente contrapposizione spontaneismo/organizzazione-coordinamento.
L’obiettivo potrebbe essere ricercato nel rafforzamento dei conflitti progettuali esistenti, costruendo una griglia concettuale efficace poggiata su istanze strategiche e non solo vertenziali, attraverso rinnovate tipologie di intervento e di conflitto, nella consapevolezza di essere portatori di interessi generali e planetari (energia, materia, beni ecologici fondamentali, salute, socialità ).
Fa parte di questo processo la costruzione di nuove alleanze tra conflitti in difesa dei beni comuni collettivi, conflitti dei lavoratori, dei migranti, contro fabbriche ed impianti nocivi, contro le precarietà, in un legame stretto tra lotte ambientali/difesa salute/ lotte del lavoro ed economiche.
2. Ripotenziamento, messa in comune, sovranità territoriale dal basso
Dall’interno dell’esperienza delle comunità resistenti e dei conflitti progettuali, quindi con un atteggiamento critico che è anche autocritico essendone soggetti attivi, proviamo a dare qualche indicazione parziale e certamente insufficiente su come il processo di ripotenziamento e il passaggio dalle resistenze alla costituzione di sovranità (alimentare, territoriale) debbano passare per l’evoluzione e/o per l’abbandono di due forme costitutive che caratterizzano questo vasto movimento, e dall’assunzione del paradigma bioeconomico e della messa in comune, quali orizzonti del movimento presente e a venire.
Non vogliamo certamente disconoscere la straordinaria importanza e fertilità del movimento dei comitati e delle reti, ma semplicemente sottolineare alcuni nodi che rischiano di bloccare il completo dispiegamento dei “conflitti progettuali”.
2.1.1 Si tratta di rendere residuale, fino all’abbandono, la tendenza ad assumere la logica securitaria e identitaria/autoreferenziale; una logica spesso presente nel multiverso dei comitati popolari.
Da una parte tale tendenza si esprime nella subalternità alla concertazione (anche se si tratta di una concertazione “calda”, vale a dire ancorata al dispiegarsi di lotte concrete) e alla delega al tecnico e all’ avvocato di parte, allo scienziato amico (aspetti fondamentali nei conflitti messi in campo dai comitati e non solo in questi, ma aspetti depotenziati se sono basati sulla delega).
Dall’ altra si nota un’incapacità o una non volontà di collegarsi a conflitti analoghi, a praticare solidarietà, ad assumere un’ottica e una dimensione globali; come se guardare oltre la specificità (e spesso la specializzazione) del problema su cui si lotta, rendesse più impervia la strada per il raggiungimento dell’ obiettivo (in realtà è esattamente il contrario). Ciò si nota nella difficoltà di collegare le tematiche della gestione dei rifiuti a quelle dell’ uso del territorio, i temi della difesa della salute alle dinamiche economiche e lavorative, le mobilitazioni per la difesa del paesaggio a quelle contro le nocività, e via dicendo.
Ciò riduce il coinvolgimento collettivo, o meglio definisce un coinvolgimento passivo (l’ottica del tifoso prevale su quella del giocatore/attore), bloccando la socializzazione delle competenze senza allargare conseguentemente la partecipazione alla discussione dei problemi e ritardando l’assunzione di un’ottica globale.
E’ ovvio che analizzando una tendenza, si rischia di lasciare nell’ombra le eccezioni rispetto ad un comportamento idealtipico. Per esempio gli attivisti più coinvolti delle reti e dei coordinamenti sfuggono a queste logiche identitarie-securitarie- localistiche, basti pensare alla Rete Rifiuti Zero, alle comunità resistenti della Val di Susa e a quelle NO Dal Molin, alla Campania, al Movimento italiano dell’acqua, alla rete NO centrali, al Foro contadino. Ma questo non sposta i limiti del movimento dei comitati, e non allontana la fragranza di localismo conservatore che spesso abita i comitati popolari.
2.1.2. Si tratta di far evolvere e di superare la forma-Stakeholder (portatori di interessi) quale specifico carattere assunto dai comitati popolari e da parte delle comunità resistenti.
Questo carattere prevalente confina i comitati popolari nell’ottica dell’impresa capitalistica, in particolare dell’ impresa capitalistica CSR (Corporate Social Responsibility).
Il punto di vista dei comitati–stakelhoders rischia di prendere i problemi, di esercitare conflitto solo dal lato della gestione dei medesimi (ottica minimizzatrice), a prescindere dalle (buone) intenzioni.
Anche in questo caso si tratta di un carattere idealtipico, che non riguarda tutte le realtà, ma che corrispondente alle dinamiche esistenti nei territori dei conflitti. In ogni caso la pertinenza e la potenzialità dei comitati-stakeholders, appaiono in parte usurate e non completamente corrispondenti alle sfide che ci pongono l’instabilità strutturale, la nuova potente infrastrutturazione del territorio, la recessione economica mondiale, il controllo militare delle città.
Certamente la critica dei comitati-stakeholders sull’estensione del degrado ambientale e sociale è stata ed è pertinente, ma resta incapace di delineare una strategia di reale fuoriuscita dalle logiche del mercato e dello sfruttamento dell’uomo e della natura.
*La storia è nota. La ricapitoliamo in estrema sintesi.
Nel paradigma marginalista (individualismo, ottica del cowboy e del far west), l’unica responsabilità dell’Impresa è quella economico-finanziaria per cui non vi è contraddizione tra utile d’impresa e benessere sociale. Le risorse sono illimitate, c’è libertà di massimizzare la crescita economica e l’utile individuale.
La reazione etico-sociale di lavoratori e cittadini preoccupati per gli effetti sociali dell’impresa capitalistica e dell’industrializzazione, ha prodotto il Welfare State; la reazione socioambientale dei cittadini alla libertà di accumulazione di malattie e inquinamento ha generato politiche di minimizzazione dei rischi sanitari e ambientali; le critiche Stakeholder all’aumento del degrado socio-ambientale, della distruzione creativa operata dall’impresa capitalistica e dall’ imperativo dell’ utile a danno dell’ ambiente naturale, dell’ ambiente antropico e dell’ambiente costruito, hanno dato origine all’impresa CSR.
Infatti se i processi di deregolamentazione e di liberalizzazione/privatizzazione ampliano la libertà dell’impresa di perseguire il proprio utile, essi impongono all’ impresa di comunicare la propria attività a tutti gli Stakeholders, a causa delle condizioni di concorrenza imperfetta e di asimmetria informativa conseguenti alla deregolamentazione.
La presunta e sbandierata responsabilità sociale della nuova impresa capitalistica CSR è un tentativo di superare i motivi di impopolarità del capitalismo quali elementi decisivi per un suo declino in un contesto di democrazia politica.
In realtà la Terra è un sistema chiuso, e in un sistema chiuso, nel lungo periodo, non può esservi crescita illimitata. Il continuo utilizzo di materia ed energia aumenta il grado di entropia.
In questo quadro, noto al capitalismo pensante, la strategia CSR cerca di salvare la capra della libertà dell’impresa capitalistica e i cavoli dell’abbondanza promessa e del proprio ordinamento sociale. In sostanza l’obiettivo è sostenere la necessità di buona reputazione socio-ambientale dell’impresa, per continuare a soddisfare l’imperativo del profitto e dell’accumulazione, cercando di evitare i conflitti tra impresa e lavoratori, consumatori, collettività/territorio locale, istituzioni.
2.1.3. Si tratta di costituirsi come volontà generale biologica alternativa.
Si tratta -da parte del movimento dei comitati popolari, delle reti e delle comunità resistenti– di assumere in modo convinto e complessivo il paradigma bioeconomico. L’insieme dei movimenti a difesa dei beni comuni segna un ritardo su questo aspetto.
Anche il movimento Rifiuti zero, le migliori esperienze di lotta contro impianti per la produzione di energia e a favore della scelta delle energie veramente rinnovabili, quanti contestano la combustione, presentano alcune incertezze su questo punto.
In breve. Nel paradigma della bioeconomia, la Terra è un sistema chiuso (scambia solo energia e non materia con l’esterno), vige il secondo principio della termodinamica (legge di entropia), il continuo utilizzo di materia-energia aumenta l’entropia.
Le risorse minerali non sono né sostituibili, né inesauribili. Per questa ragione, ogni automobile costruita oggi significa meno beni per le generazioni future e anche meno esseri umani.
Il processo economico pertanto non è isolato e/o autosufficiente; esso non può sussistere senza un continuo interscambio che provoca cambiamenti che tendono ad accumularsi nell’ambiente. Il processo economico è irreversibile.
Come nota Georgescu-Roegen, la società umana con l’invenzione della macchina termica (con cui si può ottenere energia meccanica e cinetica dal fuoco alimentato dai combustibili minerali/fossili) ha pensato di aver risolto i suoi problemi energetici, per cui ci siamo fatti trovare impreparati dall’attuale crisi bioeconomica. Siamo di fronte al problema di passare da un’economia creata su una abbondanza di combustibili fossili e di materiali ad una economia senza abbondanza di combustibili fossili o senza combustibili fossili.
2.1.4. Si tratta di costruire “il comune”.
Perché la messa comune? Perché riferirci all’orizzonte dei “commons”? (il tema è molto ampio e complesso e non possiamo qui farvi nemmeno un accenno: tragedia dei commons (G.Hardin), tragedia degli anticommons (M.A. Heller) e dibattito.
Perché appare la forma sintomatica, la modalità utile per difendere i beni essenziali, limitati e non riproducibili; la città come bene collettivo e pubblico, i saperi, gli spazi sociali, la capacità di costituire nuove socialità, nuovi legami sociali, reale autonomia dei soggetti sociali.
Perché pone la questione della riappropriazione, del fare nuovamente propri da parte del lavoro vivo e dell’intelletto sociale generale la ricchezza prodotta, gli spazi insediativi, il bios ecologico, sociale, politico.
Perché ritorna d’attualità, anche in relazione allo stato di distruzione del pianeta e alle esperienze di lotta e di vita di molti fratelli e sorelle del sud del mondo (in particolare Centro e Sud America: Sem Terra, Via Campesina, Zapatismo) la questione della proprietà collettiva, vale a dire di un altro modo di possedere, secondo la felice espressione di Paolo Grossi.
D’altro canto anche nel diritto, non più solo in quello anglosassone, si consolida l’idea di proprietà non più legata al possesso ma all’utilizzo.
In realtà il tema è quello dei beni, più che della proprietà. La domanda è: quali beni vanno tolti dal mercato?
La messa in comune diventa quindi un aspetto niente affatto residuale, “medioevale”, precapitalistico, ma reale e di crescente importanza.
In questo quadro si apre l’orizzonte della ricostituzione in forme attuali e utili delle demanialità civiche, degli usi civici, dei Commons.
3. Mutazioni delle relazioni di comando per fronteggiare l’instabilità strutturale
3.1. Guerre legate al disequilibrio tra beni naturali fondamentali (“risorse” dal punto di vista del sistema economico): fonti energetiche non riproducibili, acqua, biodiversità, terre per la produzione di alimenti e loro utilizzo, e mancata presa d’atto di questo disequilibrio e della necessità –non più rinviabile- di un altro modo di produrre e di consumare, a iniziare dai modi di consumare e produrre energia, dal risparmio dei beni ecologici fondamentali e dall’ allungamento del ciclo di vita dei prodotti.
La “guerra permanente” -una guerra contemporaneamente economica, ecologica, sociale e militare- è in larga parte collegata a questi estesi e crescenti disequilibri.
Lo si vede nella necessità del controllo –per gli Stati e le grandi corporazioni transnazionali energetiche, alimentari e finanziarie- dell’intero ciclo energetico: fonti energetiche fossili, nucleare, fonti assimilate alle rinnovabili come la combustione delle biomasse (ivi compreso l’incenerimento dei rifiuti biodegradabili), e nella scelta di destinare interi territori del Sud del mondo (in particolare in America Latina) alla produzione di agrocombustibili, riducendo così la quantità di terra destinata alla produzione di alimenti con conseguente impennata dei prezzi di grano, riso, pane e, a seguire, aumento di morti per fame nel Sud del mondo.
Secondo diversi analisti (tra gli altri Paul Virilio) le nuove forme di guerra hanno come teatro prioritario le città. Lo si può riscontrare nella dislocazione della strategia militare dentro la Metropoli, intesa sia come comando sulla produzione e sulla riproduzione, che come città di grandi dimensioni.
La “dissuasione armata” è rivolta essenzialmente ai civili, ai migranti, alle comunità resistenti a difesa dei beni comuni ad iniziare dalla salute; sta nei decreti sicurezza, nelle leggi speciali. Le nuove forme di controllo militare si esprimono nella criminalizzazione delle proteste e delle lotte che ostacolano l’ideologia del “fare” (ivi compreso l’ambientalismo del fare ) e nella dissuasione alla resistenza e al conflitto.
In Italia sono segnali di questa tendenza alla guerra e al controllo militare sul teatro urbano la dislocazione dell’esercito professionale in molte grandi città, o a presidiare discariche, inceneritori, aeroporti, stazioni, cantieri delle grandi e meno grandi opere pubbliche puntuali e lineari (TAV, autostrade, rigassificatori) oppure, sul versante normativo, il decreto che esclude la Valutazione Ambientale per qualsiasi tipo di opera che, secondo il governo, sia di difesa nazionale o su cui venga apposto il segreto di Stato.
3.2. Nuova gerarchizzazione sociale e territoriale realizzata dal capitale globale. I territori della Metropoli.
Nuove modalità di comando che rendono il caos funzionale al tentativo di perpetuare il capitalismo e che definiscono una diversa geografia produttiva, sociale e insediativa.
* Nuove forme di colonialismo e di sfruttamento generalizzato e planetario della forza lavoro e dell’intelligenza dei migranti;
* Ritorno, con modalità rinnovate, di un’antica forma di accumulazione per espropriazione (D. Harvey): terre, beni ecologici collettivi fondamentali come acqua, fonti energetiche non riproducibili, semi, genoma, saperi, sapienze tradizionali delle comunità urbane e rurali;
* Dilatazione della precarietà nei rapporti di lavoro e nell’esistenza; affermarsi di logiche e pratiche securitarie;
* Importanza del lavoro cognitivo (sapere e conoscenze come fattori centrali dei processi di produzione di merci, servizi, informazioni);
* Crescente importanza dei servizi alle imprese, dei servizi locali e sociali nell’estrazione del profitto (liberalizzazione e privatizzazione dei servizi locali; passaggio dal finanziamento dei servizi locali con la fiscalità generale a quello con la fiscalità di scopo. Tariffe che coprono investimenti e servizi offerti: è il caso di gas, acqua, rifiuti, energia elettrica). Predominio del capitale finanziario nei servizi: multiutilities.
Relativamente ai servizi locali e alla loro liberalizzazione/privatizzazione, bisogna sottolineare come tali servizi riguardino beni rivolti a soddisfare bisogni fondamentali e imprescindibili. Tali bisogni “condizionali” incidono in modo non marginale sul lavoro, la vita delle persone, l’organizzazione della città, nelle relazioni territoriali. Essi rientrano nei servizi pubblici d’nteresse generale.
Sono quindi beni che NON vanno posti sul mercato, proprio il contrario di quanto si sta facendo con i processi di liberalizzazione-privatizzazione e di deregolamentazione.
E’ per queste ragioni che l’insieme dei movimenti e dei comitati (movimento italiano per l’acqua pubblica, Rete Rifiuti Zero, Rete centrali e realtà in lotta contro l’ attuale modalità di produzione di energia), si battono tanto per la ripubblicizzazione su basi nuove dei servizi locali, quanto per l’avvio di vertenze sulle tariffe acqua, rifiuti, Cip 6, certificati verdi: bolletta elettrica; autoriduzione Tariffe.
* Territorio e città come forma della valorizzazione capitalistica. Il territorio (infrastrutture, impianti energetici, rinnovo urbano, rendite fondiarie) definitivamente ridotto a merce, non è più solo capitale fisso sociale ma anche flusso di capitali, di merci, di persone.
Con il neoliberismo la città, il territorio “metropolitano” e i territori rurali vengono ulteriormente semplificati, ridotti a merce, a sistemi uniformi e instabili dove comandano le ragioni del libero mercato, sia globale che locale.
Le città che per loro stessa costituzione materiale e simbolica sono state considerate bene collettivo e spazio pubblico, sono diventate vere e proprie “unità” produttive complesse, forma diretta di accumulazione e valorizzazione capitalistica. Il Capitale globale ha definitivamente sottoposto alla propria valorizzazione la città e il territorio. Ormai il territorio è diventato una slot machine (Ziparo).
L’infrastrutturazione del territorio, i processi di rinnovamento e di ri-valorizzazione delle città, l’estensione delle produzioni nocive e delle conseguenti malattie e morti, il ruolo centrale di comando produttivo e finanziario delle “città globali” (Saskia Sassen), le Expo, le speculazioni immobiliari, le rinnovate e esponenziali rendite urbane, le mercificazione dei beni comuni ecologici, storici e sociali, con la contemporanea distruzione di beni collettivi fondamentali (terra, biodiversità, acqua, ecosistemi), sono gli elementi di questa complessa e articolata unità produttiva.
Infine la città da utopia costruita della liberazione e delle socialità umana è divenuta il terminale delle nuove forme di guerra e di controllo militare dell’ esistenza.
Non è un caso quindi che i comitati popolari, le comunità resistenti, e il dispiegarsi dei “conflitti progettuali” degli ultimi anni siano nati e siano cresciuti proprio su e contro queste strategie globali di uso del territorio e dei beni ecologici primari (materia, energia, acqua, terra, città, casa: NO Tav, No Mose, No Ponte, NO Inc e per Rifiuti Zero, No autostrade, No agricoltura industriale, NO Ogm, No agrocombustibili; NO privatizzazione /liberalizzazione dei servizi, No espropriazione di terre collettive e civiche, semi.)
Si tratta ora di avviare processi sociali per invertire la rotta: verso la messa in comune della città, dei beni ecologici fondamentali, a principiare dall’energia e dagli alimenti ( sovranità alimentare ), dei saperi, delle conoscenze, della ricchezza prodotta, verso un loro uso collettivo, egualitario e parsimonioso, ecologicamente coerente.
Movimenti della Metropoli e movimenti rurali convergono. Verso la costituzione di diritti alla terra, alla salute, alla casa, all’educazione, al conflitto progettuale, oltre la solidarietà tra consumatori del nord e piccoli produttori del sud. Verso la sovranità territoriale.
3.3. Criminalizzazione delle comunità resistenti
La criminalizzazione dei migranti e delle comunità resistenti viaggia su diversi binari: il pacchetto sicurezza e le relative misure liberticide, le schedature delle popolazioni Rom e Sinti, le impronte digitali dei Rom, ivi compresi bambine e bambini. Il settimanale Famiglia Cristiana parla di metodi fascisti; in ogni caso il governo italiano ha violato la Direttiva 200/43 che sancisce la parità di trattamento tra le persone, indipendentemente dalla loro origine etnica.
Ne emerge un’Italia xenofoba: l’ ex “bel paese” impregnato di razzismo, intolleranza, indifferenza.
In questo quadro rientrano la delega ai sindaci perché assecondino le richieste della pancia reazionaria del paese; così come vi rientrano la cancellazione dei diritti dei precari ad essere assunti (non è più tempo di tutele collettive, legislative, sindacali!) e la messa in discussione dei contratti collettivi di lavoro (vedi la “legge antiprecari” art. 21 d.l. 112/08 sui contratti a termine, vera e propria violazione del principio di uguaglianza).
Vi rientrano anche i tagli alla sanità (compresa la reintroduzione dei ticket sanitari), alla scuola e all’università.
Forme di controllo e di comando, quelle citate, non più inscrivibili unicamente nelle classiche pratiche di repressione delle realtà e dei gruppi in varie forme antagonisti. Una repressione che peraltro continua come portato storico di una tradizione dura a morire. Nel controllo armato delle città e degli impianti, nella guerra permanente per il controllo di aree del pianeta e delle riserve fondamentali (fonti energetiche fossili, acqua, biodiversità), nel comando sulle dinamiche metropolitane c’è qualcosa di profondamente diverso e di più potente della consuete e conosciute forme repressive dell’antagonismo.
Infatti se spostiamo lo sguardo verso le strategie politiche e militari internazionali, queste nuove forme di comando militarizzato del territorio e delle città non possono essere lette soltanto come effetto del “delirio” securitario, ieri del governo Prodi e oggi di quello Berlusconi, ma come uno dei punti del programma globale di Pentagono e Nato, relativo all’uso degli eserciti nelle megalopoli del futuro.
Il riferimento è allo studio NATO “UO” (Urban Operations 2020) dove la città del futuro viene indicata come luogo di concentrazione di tutte le contraddizione della società capitalistica allo stadio supremo e, per questo, come probabile campo della battaglia “finale” per la “sopravvivenza” del Capitale globale. Nelle megalopoli del futuro –forse di un futuro prossimo- azzeramento dei servizi sociali, aumento delle ingiustizie e dei prezzi, scarsità di acqua, di cibo, di energia e di lavoro daranno vita a conflitti e a rivolte di grande impatto che le forze di polizia non saranno probabilmente in grado di fronteggiare e di reprimere (oggi ne possiamo già cogliere alcune anticipazioni: attacco alle comunità resistenti in Val di Susa, a Vicenza, Chiaiano, Serre, Acerra, Napoli). Questo ragionamento porta lo Studio Urban Operations 2020, ad invitare gli Stati della Nato e le amministrazioni regionali a utilizzare gradatamente l’esercito in funzione di ordine pubblico, in vista della crisi mondiale ipotizzata.
Da notare la quasi contemporaneità tra lo studio Nato relativo alle operazioni militari di controllo delle aree metropolitane sopra citato e il documento, dall’emblematico titolo di “Rebuilding America’s Defenses” (Ricostruzione delle difese americane), elaborato nel settembre del 2000 dal “Project for a new American Century” (Progetto per un nuovo secolo americano, un centro studi con finalità di gruppo di pressione fondato alla fine degli anni ’90 da alcuni esponenti di spicco del pensiero neoconservatore) che è andato di fatto a costituire la base teorica della linea di politica estera aggressiva perseguita dall’amministrazione Bush.
All’interno di questo programma NATO, l’Italia propone di addestrare personale militare a muoversi in ambienti urbani, anche per padroneggiare impianti di comunicazione e di distribuzione di energia, gas, acqua: un vero e proprio esercito antisommossa e a presidio dei beni comuni collettivi, espropriati ieri in via economica, oggi in via militare.
Il sistema di controllo delle popolazioni è alla ricerca di nuove tecnologie operative. Fa parte dello Stato Maggiore dell’esercito Italiano il Reparto Logistico –Progetto Tecnologie Avanzate- che studia sistemi di arma bivalenti letali/non letali, come le bombolette spray urticanti che possono essere utilizzate contro poche persone o singoli; o i proiettili ad alta deformabilità e ad energia cinetica costante. Tali armi sono state utilizzate dall’esercito italiano in operazioni di guerra “umanitaria” all’estero, in operazioni di polizia e di ordine pubblico (operazione Vespri siciliani), in operazioni antimmigrazione nel controllo delle coste del Salento e in occasione di Summit internazionali (Genova 2001, Pratica di Mare, 2003). Nel quadro di un uso dell’esercito in funzione di ordine pubblico nelle città si sono avuti diversi addestramenti specifici, tra i quali quello del febbraio 2003 a Cesano (Crisis Response Operation), all’ interno del secondo corso di “Controllo della folla”.
Il controllo militare delle città e dei siti per infrastrutture e impianti, rappresenta anche il pesante risvolto della logica securitaria (vedi come esempio, minore ma significativo, le ronde cittadine dei “destri” volontari) e delle nuove forme repressive suscitate dalle cosiddette “emergenze”: energia, rifiuti, approvvigionamenti idrici, infrastrutture lineari -TAV, autostrade-, “migranti”.
Non è certo utile farci travolgere dal pessimismo, ma la nozione “economia di guerra” può tornare utile per una lettura disincantata di quello che vediamo e viviamo. A cosa allude –almeno sul piano dell’immaginario- se non ad una “economia di guerra”, un sistema che affida al libero mercato (imprese private/ megacooperative) le grandi opere e la gestione dei servizi locali e che, per garantirne la realizzazione, schiera l’esercito per le strade, nei siti per gli impianti prossimi venturi, sotto i palazzi delle aziende ex municipalizzate (oggi multiutilities)?
Che cosa è se non una “economia di guerra”, quella economia mondo occidentale -alla quale si sono aggregate Cina e India- che ha prodotto in nemmeno duecento anni l’azzeramento relativo delle fonti energetiche fossili e delle materie prime fondamentali, accingendosi a farlo con l’acqua e con la biodiversità, e che ora in forza della crescita dei prezzi di petrolio, gas, rame, grano non può che usare la guerra per controllare ciò che ormai non sembra più controllabile?
3.4. Oltre la polarizzazione e il “senso comune” conservatore
Mentre appare sempre più evidente la rottura tra comunità e governo, tra agire collettivo e delega, emerge una polarizzazione che da una parte presenta una proliferazione di “conflitti progettuali” nei territori della Metropoli e in quelli rurali del Sud del Mondo -in particolare in America Latina-, una nuova composizione sociale, nuovi bisogni, e, dall’altra, favorisce delirio securitario, forme identitarie conservatrici, imbarbarimento delle relazioni sociali e umane.
Non si può non notare come questa polarizzazione attraversi –talvolta in forme sfumate, talvolta in modo più marcato- anche il movimento dei comitati popolari, le comunità resistenti che lottano in difesa dei propri diritti, dei beni comuni collettivi, del bios locale e planetario.
Con questa affermazione non vogliamo disconoscere la straordinaria importanza e fertilità del movimento dei comitati e delle reti, ma semplicemente sottolineare uno dei nodi che rischia di bloccare il completo dispiegamento del “conflitto progettuale”.
Dando uno sguardo al quadro delle aggregazioni politiche più o meno organizzate che, negli ultimi anni, hanno sviluppato percorsi di mobilitazione e di coinvolgimento intorno alla tematica della difesa dell’ambiente e dei beni comuni notiamo come, relativamente al rapporto in cui tali strutture di movimento si pongono rispetto al livello politico amministrativo produttore delle scelte contestate, si realizzi una “polarizzazione” delle relazioni “politiche” interne alle collettività in lotta e delle forme organizzative.
Con i rischi della schematizzazione e semplificando il quadro, possiamo individuare due pratiche e due atteggiamenti prevalenti.
a) Pratiche ed elaborazioni fondamentalmente conflittuali rispetto al livello decisionale sopra citato; aggregazioni sociali in cui risulta centrale l’importanza dell’assemblea, dei momenti di confronto collettivo (dove a discutere sono soggetti paritari) sia in ordine allo stabilire la propria “agenda politica” che al produrre sapere e apprendimento sociale, rendendo “bene comune” informazioni scientifiche e culturali autoprodotte o frutto di rapporti con tecnici e saperi ufficiali, circa ciò contro cui ci si organizza. Contesti (per citare esempi concreti, il Movimento No tav della Val di Susa, la situazione napoletana: Acerra e Chiaiano, ma anche molte realtà dove i comitati popolari e i loro coordinamenti hanno saputo costruire dimensioni globali di “conflitti progettuali”, o anche il Patto di Mutuo Soccorso), nei quali è la “comunità resistente” ad agire in prima persona, senza la presenza di “corpi separati”, ponendo in essere momenti di mobilitazione il più possibile collettivi.
b) quando la tendenza è a porsi prevalentemente in rapporto interlocutorio con le strutture politico-amministrative, le condizioni che vengono a determinarsi sono completamente diverse, e sostanzialmente subalterne rispetto ad una sorta di logica di concertazione. La ricerca di un referente interno ai luoghi di produzione delle decisioni, nella convinzione che non esista modo di incidere attivamente sulle scelte politiche se non muovendosi tramite tali canali, rende chiara l’interiorizzazione, da parte di questi soggetti, del concetto di delega. Tale processo è espresso anche da una certa tendenza degli stessi a costruire liste civiche in occasione delle consultazioni elettorali (è il caso –ad esempio- del Comitato contro l’inceneritore di Case Passerini, Campi Bisenzio (Fi), che già aveva prodotto, nel quadro di forme codificate di partecipazione politica, il referendum tenutosi a Dicembre 2007). A partire da questo sistema di relazioni le caratteristiche dell’approccio sopra citato tendono a riprodursi sia sui percorsi d’iniziativa intrapresi, con l’opzione, per quanto riguarda direttamente il contrasto alle scelte di trasformazione del territorio, di metodi d’azione (quali estesi ricorsi al TAR, alla Magistratura) a ridotto coinvolgimento collettivo e, sul piano dell’analisi scientifica di quanto affrontato, demandando a tecnici vicini alle posizioni del “movimento” l’intervento nelle sedi istituzionali preposte, senza socializzare competenze e allargare conseguentemente la partecipazione alla discussione dei problemi, che sulla struttura interna delle aggregazioni stesse, con l’adozione di figure organizzative (presidente, segretario, cariche in genere ricoperte da soggetti distinti per proprietà di linguaggio o altre “attitudini politiche” ) proprie di strutture associative diverse dai comitati “di base” genericamente intesi.
Un punto su cui focalizzare l’attenzione è il rapporto, il più delle volte conflittuale (in vari gradi a seconda dell’inasprimento del conflitto e della presenza nelle lotte di istanze così dette “radicali”), tra le popolazioni in lotta e gli apparati del potere “democratico”.
In questo caso si manifesta una contrapposizione generalmente marcata tra la volontà popolare –che spesso rappresenta momenti, magari parziali ma sicuramente importanti di democrazia diretta e non mediata- e gli apparati della democrazia formale che dovrebbero –in teoria- rappresentare la volontà degli elettori.
In questi casi la differenza di potenziale tra democrazia formale (istituzionale) e democrazia reale (diretta) si fa netta, da un lato le popolazioni che si appropriano del diritto di decisionalità riguardo alla gestione del territorio, e dall’altro il potere “ufficiale” che vorrebbe avocato a sé ogni ambito della gestione del quotidiano e che si trova a dover affrontare la propria delegittimazione appellandosi –per assurdo- alla legittimazione ricevuta a mezzo tornata elettorale.
Infine è interessante notare come alcune delle esperienze d’impostazione autogestionaria e autorganizzata, abbiano maturato, a fianco dell’esperienza quotidiana di condivisione e confronto, anche un elevato grado di elaborazione teorica sia riguardo nuove forme di convivenza e di gestione del quotidiano, che di comprensione dell’interdipendenza di tutte le lotte che si stanno svolgendo oggi nel paese (pensiamo ai movimenti per Rifiuti Zero, contro le devastazioni ambientali, sull’ energia, contro le basi militari e di morte, in difesa dei beni comuni collettivi ecc…), che riguardo ai rapporti tra devastazioni ambientali/sociali e processi-modi di produzione e di consumo.
E’ necessario, dunque, per l’insieme del movimento, avviare una riflessione approfondita sul senso ed il significato di queste lotte, delle loro potenzialità e dei loro difetti/limiti al fine di poter giungere alla comprensione delle possibilità più o meno radicali di cambiamento dell’esistente che queste esperienze portano in seno.
La spinta autogestionaria, l’autorganizzazione, la difficoltà che trova il potere nel riassorbire le criticità che questi movimenti innescano e le potenzialità di cambiamento che ne discendono; le capacità che i movimenti hanno di creare sapere condiviso; il palese superamento, in alcuni ambiti, del concetto di democrazia rappresentativa a favore delle pratiche –cariche di potenzialità positiva- di democrazia diretta.
Pistoia, Agosto 2008
Collettivo Liberate gli Orsi, Assemblea ex presidio “Giulio Maccacaro” per la chiusura dell’inceneritore di Montale.