Buone pratiche di cittadinanza e mutualismo
Settore primario, settore secondario, settore terziario: così le tavole statistiche ancora classificano la distribuzione delle attività e delle occupazioni in un Paese.
Tutto ciò che non è agricoltura, ciò che non è industria si riversa nella categoria residua del terziario..
Soltanto quando quel settore “residuale” detto terziario è diventato “centrale” nella struttura della società , si è incominciato a scavare all’interno del grande oceano dei servizi terziari, distinguendo, precisando, classificando realtà diverse, opposte, talvolta incompatibili.
Il cosiddetto Terzo settore ( o terzo sistema, o non profit..) condivide invece ancor oggi il destino del vecchio “terziario” delle statistiche economiche, quello cioè di essere considerato un contenitore generico nel quale si versano alla rinfusa tutte le pratiche e gli attori sociali che sfuggono ai consolidati criteri di classificazione dei due principali sistemi d’azione: l’agire amministrativo pubblico e l’azione privata di mercato.
L’impegno principale di analisi e di dibattito sembra ancora concentrarsi nello sforzo di tracciare le frontiere, non sempre nette , che separano questa area “terza” dallo Stato e dal Mercato.
E’ recentissimo il contributo diligente di Alessandro Montebugnoli rivolto a indicare linee e a rintracciare confini attraverso una “definizione argomentata di Terzo settore”. (1)
Ma ormai è tempo di inoltrarsi con affilate e non reticenti analisi all’interno del generico recipiente che accoglie le più eterogenee e contraddittorie realtà.
Questa esigenza non discende da una centralità quantitativa di questo spazio dell’esperienza sociale (pur in continua espansione) ma viene sollecitata soprattutto da scottanti interrogativi politico-culturali intorno al significato e alla valenza che questo fenomeno assume dentro le crisi del presente e all’interno delle prospettive del nostro futuro.
Operando una drastica semplificazione si possono indicare due contrapposte visioni del Terzo settore.
Ambedue concordano in un punto: a monte dell’espansione crescente di questo fenomeno c’è la crisi dirompente e irreversibile del compromesso tra l’industrialismo fordista e lo stato sociale keynesiano, compromesso che ha garantito per molti decenni equilibrio e coesione sociali nei Paesi a capitalismo avanzato d’Occidente.
Gli uni vedono nei diversificati e mobili sviluppi del Terzo settore un processo di accompagnamento e di bilanciamento sociale, temporaneo e occasionale, dello smantellamento del vecchio sistema di garanzie e di protezioni . Interventi di auto-tutela sussidiata, arrangiamenti locali, nuove forme di mobilitazione filantropica dovrebbero contenere e diluire le tensioni che provengono dalla ristrutturazione liberista dell’economia e dal disimpegno progressivo dello Stato.
Altri invece scorgono, all’interno del Terzo settore, l’emergere di linee di tendenza, di figure sociali, di forme associative, di embrioni di rinnovata democrazia dei corpi intermedi che possono confluire nella costruzione del progetto di un “nuovo incastro” a vincoli etici, sociali e politici di una innovata economia di mercato.
Troppo semplici e lineari le due contrapposte visioni. Il Terzo settore è luogo contraddittorio che ospita dosi fortissime di ambivalenza.
Non è sufficiente tracciare la mappa statistica quantitativa dei raggruppamenti, stilare l’elenco delle loro configurazioni giuridiche, stendere la classificazione delle aree di intervento, raccogliere le cifre del lavoro dipendente o dell’impegno volontario all’interno del Terzo settore .
E’ necessario andare più a fondo: comprendere le logiche dell’azione sociale che in esso operano e si scontrano occorre fare una indagine qualitativa di ciò che si muove all’interno di questa composita e confusa galassia.
L’almanacco delle buone pratiche di cittadinanza 2004 (2) seleziona e raccoglie nelle sue 400 pagine esperienze di intervento capaci di stimolare una riflessione sulla qualità delle pratiche, sui valori di riferimento e sulle forme associative di chi opera nel cosiddetto terzo settore.
Da questa pubblicazione voglio trarre due spunti concreti che utilizzo per sviluppare argomentazioni di carattere più vasto.
Prendo avvio dalla bella intervista ai membri di una cooperativa di tutoraggio di ragazzi in gravi difficoltà in un quartiere degradato di Napoli. L’associazione ha un nome misterioso “ Il tappeto di Iqbal”. L’intervistato spiega che quel nome richiama la vicenda di un piccolo schiavo pachistano ucciso a dodici anni dalla mafia dei tappeti quando ha cercato di organizzare la resistenza alla disumana condizione sua e dei suoi compagni. Il collegamento simbolico tra quell’esperienza così lontana nello spazio e l’azione di sottrazione di ragazzi napoletani alla servitù del circuito camorristico evidenzia una rilevante circolazione globale di informazione ed identificazione all’interno di pratiche sociali e valori condivisi: impegni sociali molecolari molto diffusi ma anche fittamente interconnessi.
Le buone pratiche di cittadinanza non nascono dal buon cuore ma dall’interazione tra la risposta a bisogni “locali” e il coinvolgimento nella costellazione di ideali e di esperienze comunicati dalla diffusione dei nuovi movimenti sociali..
La seconda occasione di riflessione l’estraggo dalla ricca intervista a due animatori dell’associazione friulana “Vicini di casa”.
Gli intervistati anche questa volta prendono il discorso da lontano, ma da lontano nel tempo: “In Friuli ogni paese aveva la sua latteria sociale cooperativa, erede della vecchia esperienza cooperativa cattolica e socialista di fine 800 e inizi 900…”.
I tempi nuovi hanno travolto quella esperienza rurale che però ha lasciato una eredità di tradizioni culturali e di strutture materiali. Si è deciso di rilanciare quel patrimonio antico per affrontare un problema nuovissimo: offrire agli immigrati una possibilità di civile inserimento abitativo. Ora l’associazione gestisce l’affitto di 1500 famiglie di immigrati.
Anche in questo caso la buona pratica che opera nel presente non nasce nel vuoto, ma si alimenta nel sedimento storico della cultura sociale: la attualizza e la rilancia.
Mi pare fondamentale mettere in evidenza questo processo di doppia riduzione di distanza : da una parte l’apertura verso uno spazio di cittadinanza “globale”, dall’altra la riattivazione nel tempo presente di ciò che resta vivo nelle radici del passato “locale”.
Qui vedo l’originalità e la forza delle forme emergenti della sociabilità.
Da tempo siamo usciti dal “glorioso trentennio”.
Ma è pigra e lenta la percezione dell’insorgere anche all’interno dell’Occidente (non solo nel “resto del mondo”) di una nuova questione sociale che esige mobilitazione di cultura, grande capacità di invenzione politica ed istituzionale, forte attivismo creativo nella tessitura di trame associative e di legami sociali in progressiva dissoluzione.
Nella questione sociale dei nostri giorni si avvitano sussulti dell’economia, crisi di identità e traumi tecnologici.
Le tecnologie elettroniche e informatiche disintegrano e disperdono le vecchie comunità di lavoro. Delocalizzazioni e ristrutturazioni diffondono insicurezza. L’obsolescenza dei saperi e dei mestieri genera erosione biografica. Nel lavoro sempre più informatizzato la quota di energia psichica e mentale erogata cresce enormemente. Alta competitività nel lavoro, estesa precarietà e crescenti richieste di flessibilità rendono sempre più tesi i rapporti tra costrizioni del lavoro e bisogni della vita.
Sicuramente l’epicentro del terremoto sociale si colloca. nel colossale processo di destabilizzazione di quel lavoro salariato che era diventato il grande integratore delle nostre società attraverso lo stabile rapporto con l’impresa, mediante l’affermazione di identità collettive sindacalmente e politicamente rappresentate e con il riconoscimento della propria centralità concretizzato nelle tutele dello Stato sociale.
Ci troviamo di fronte a un apparente paradosso.
Gli ambiti di lavoro, che sono violentemente ed estesamente colpiti da insicurezze e disoccupazione, da nuovi vincoli e disagi non ci appaiono in questo momento come i luoghi della resistenza più significativa, come i contesti delle esperienze sociali e politiche più radicali e innovative.
E’ invece all’interno degli ambiti di vita, all’interno dei processi di riproduzione sociale che le onde lunghe e ruvide degli sconvolgimenti del lavoro sembrano esprimere insorgenze di risposta, di auto-difesa, manifestare fermento critico e propositivo.
Non è difficile cercare e trovare ragioni di queste impreviste dinamiche.
E’ saltata la netta separazione, tipicamente fordista, tra tempo di lavoro visibile e riconosciuto e tempo di non-lavoro come spazio socialmente opaco affidato allo Stato sociale e alla famiglia. .
Nuovi vissuti di precarietà e di dissociazione dentro i lavori si sommano con il senso di esclusione dalle forme ereditate della protezione sociale.
Si attiva una compenetrazione e una circolarità di tempi e di tensioni tra vita e lavoro e viene rischiarata a tutto tondo una problematica condizione esistenziale della persona in quanto tale che scardina quella che fu la centralità della mutilata e unilaterale “coscienza del produttore”.
In questa nuova condizione e quando l’ambito di lavoro, con il ribaltamento del paradigma produttivo, diventa il fulcro dell’esperienza della disintegrazione, del disorientamento e della perdita di controllo è ovvio che tentativi di risposta, esperimenti di autodifesa tendano a spostarsi su altri terreni.
Si può ricordare che nel tempo delle drammatiche fratture prodotte dal primo industrialismo il mutuo soccorso tra i lavoratori nelle condizioni di esistenza ha preceduto la resistenza sul lavoro. Allora la costruzione di aggregazioni della solidarietà negli ambiti di vita fu premessa e presupposto delle lotte del lavoro.
Nei primi decenni del secolo scorso il sindacalista francese Victor Renard (3) aveva teorizzato e proposto il “sindacalismo a base multipla”, in sostanza un sindacalismo che fosse in grado di utilizzare la solidarietà mutualistica negli ambiti di vita come leva per rafforzare la coesione rivendicativa nei luoghi di lavoro.
Oggi, quando il lavoro è vulnerato, precarizzato e disperso, non si possono pensare forme di associazionismo mutualistico come itinerario verso la ricostruzione di una capacità di coalizione e di rivendicazione nel lavoro?
Il sociologo americano Richard Sennett (4) propone oggi una esperienza che si avvicina a quella del sindacalista Renard e che egli definisce “sindacalismo parallelo”. Il sindacato delle segretarie di Boston e quello dei lavoratori della comunicazione in Gran Bretagna attivano vere e proprie forme di neomutualismo al fine di produrre un vissuto comunitario e di realizzare tutele in un contesto di lavoro frammentato, flessibile e precario.
Il sindacato dovrebbe apprendere a “fare società”, non limitarsi ad aprire sportelli di servizio.
Si può ricordare l’esperienza del lavoratore edile, da sempre emblematica figura della precarietà e della flessibilità selvaggia di un lavoro sottomesso alla temporaneità del cantiere che nasce e muore, ai cicli delle stagioni, ai rischi della disoccupazione. Gli edili all’inizio del secolo scorso hanno inventato la Cassa Edile come istituto di mutualizzazione della precarietà per la conquista immediata di garanzie essenziali e come percorso verso la costruzione della coalizione rivendicativa.
E’ improprio leggere i processi sociali in bianco o nero. I movimenti della società si manifestano in chiaro e scuro: insieme a ciò che deperisce si mescola quello che sta nascendo.
L’autunno del 1980 può essere assunto come una data emblematica della complessità della metamorfosi sociale.
In quei mesi coincidevano due eventi: la storica sconfitta operaia alla Fiat dopo 35 giorni di lotta e il terremoto dell’Irpinia che attivava una solidarietà operante e positiva di giovani, di lavoratori, di sindacalisti da tutta Italia.
Utilizzando l’immagine secca e provocatoria di Marco Revelli si potrebbe collocare all’interno di questa contraddittoria coincidenza il declino della tradizionale “militanza” novecentesca e l’emergenza della nuova figura del “volontariato”.
Per lunga tradizione analisti sociali e osservatori politici avevano puntato lo sguardo in modo quasi esclusivo sui rapporti di produzione, sulla fabbrica.
Il senso della transizione storica veniva visto soprattutto in ciò che accadeva, che decadeva nella Fiat di Torino.
Era più difficile alla cultura allora prevalente percepire la portata di ciò che invece nasceva tra le rovine dei comuni dell’ Irpinia.
Il volontariato si inseriva in quel lato oscuro dell’esperienza sociale che per decenni veniva indicato come mero spazio del “non lavoro”, che faticava ad assurgere alla dignità di “ambiti di vita”, ad essere colto come momento essenziale della “riproduzione sociale”.
Il lato attivo della storia veniva sempre dalla produzione. Nei rapporti di produzione e nei conflitti al loro interno si produceva l’avanzamento sociale e si affermava la democrazia del lavoro
Consumismo di mercato e sudditanza allo Stato paterno erano visti come i momenti della passivizzazione, della dipendenza e della integrazione sociali.
Era difficile, nei tempi d’oro del “miracolo” consumista e delle conquiste welfariste, scorgere la presenza di resistenze, di aree di autonomia nella vita quotidiana all’interno di una società sempre più pesantemente colonizzata dall’offerta di mercato e dall’interventismo di Stato.
Eppure persone, famiglie e comunità mai sono state completamente inerti, passive “destinatarie” dei beni delle attività di impresa e dei servizi delle amministrazioni.
Le fatiche e le capacità di processare e di adattare i beni e i servizi dell’offerta all’uso per se stessi hanno sempre generato un’area di attività, un corpo di saperi taciti, implacabilmente relegati nel cono d’ombra degli affari domestici e dell’arrangiarsi informale .
Certamente la “rivoluzione silenziosa” delle donne ha costituito la leva principale nel portare alla luce, nel dare valore sociale alla segregata ed oscurata “economia domestica”.
La rilevanza sociale e politica del lato attivo, competente e propositivo della “domanda”, ha avuto accelerazioni soprattutto dentro la crisi del welfare che precipitava sia come ridimensionamento di prestazioni, sia come modalità burocratiche e clientelari in conflitto con una più esigente ed attiva cittadinanza, sia come rigidità dell’offerta rispetto alla mappa, in rapida trasformazione, delle aree e delle forme del disagio e dei bisogni.
Il volontariato, negli anni 80, nasce fortemente orientato alle nuove marginalità: i tossicodipendenti, i senza fissa dimora, gli immigrati, i disabili e i malati di mente. Non si manifesta come “azione compassionevole” verso i bisognosi, ma come impegno di cittadini attivi volto a rendere esigibili diritti negati ai cittadini deboli.
La combinazione e l’intreccio del volontariato con movimenti ad obbiettivo specifico, come il pacifismo, l’ambientalismo e l’antirazzismo, creano sinergie che arricchiscono un inedito associazionismo che si colloca ormai all’esterno degli storici e fondamentali corpi intermedi novecenteschi: il sindacato e il partito politico.
Nel 1998 Caillé e Laville nella Presentazione del numero della rivista MAUSS dedicato all’associazionismo (5) segnalavano una paralizzante divaricazione tra le associazioni.
Da un lato essi indicavano i limiti delle “associazioni spettacolari” capaci di mobilitare episodicamente l’opinione pubblica su temi scottanti come il razzismo, la disoccupazione, la pace, gli immigrati irregolari.
Dall’altra parte mostravano i punti deboli delle associazioni impegnate nell’esercizio silenzioso di pratiche solidaristiche, strette tra la ripetitività dei compiti e la fatica delle mediazioni.
Era l’incapacità di coniugare la produzione di una democrazia d’opinione con pratiche costanti di costruzione di relazioni che impediva, secondo gli autori, all’associazionismo di diventare protagonista politico visibile e legittimato.
Un anno dopo, nel novembre del 1999, c’è l’evento Seattle: nasce il movimento dei movimenti.
La qualità politica più originale di questo movimento consiste appunto nella sua articolazione a più livelli. Esso si presenta come una “associazione di associazioni” che attiva un doppio movimento.
Dal coinvolgimento di una miriade di raggruppamenti di impegno sociale sorgono grandi mobilitazioni temporanee di opinione. Dal momento dell’incontro e del dibattito di massa fluiscono poi risorse politiche, sociali e cognitive che vanno ad irrigare il reticolo dell’azione specifica quotidiana.
Vediamo operare una dinamica molto diversa dai movimenti sociali tradizionali imprigionati dentro la polarità di stato nascente e di riflusso.(6)
Se si conferma questo rapporto sinergico tra mobilitazione ampia di opinione e costruzione molecolare di reti sociali, forse si esce dalla consueta dialettica tra movimento ed istituzioni per passare al confronto tra forme stabili e diverse dell’agire politico.
Quelle forme dell’azione sociale che chiamo buone pratiche di cittadinanza indicano soggetti e raggruppamenti che, in qualche modo, interagiscono con il contesto globale in movimento. Inoltre il loro specifico modo d’intervento sociale non resta chiuso all’interno della mera rivendicazione verso l’alto e non opera come semplice azione di supplenza rispetto a ciò che dall’alto non viene .
Esse contengono elementi critici ma tendono a proporre soluzioni. Mentre avanzano proposte sovente incominciano a realizzarle in proprio.
Queste nuove forme di intervento sociale cercano di trasformare gli “utenti” passivi di prestazioni esterne in soggetti capaci di esprimere proprie energie latenti, di riprendere iniziativa e ritrovare anche limitati ma possibili spazi di autonomia
Sono spinte che tendono a incrinare il nesso assistenza-dipendenza, il paradigma forte che compatta le esigenze di comando del ceto politico, la volontà di conservazione del ruoli amministrativi, l’intangibilità dei circuiti di potere-sapere degli esperti.
Esse rimettono in discussione l’autoreferenzialità delle strutture di welfare, autoreferenzialità che riproduce i processi di fondo della logica delle organizzazioni tendenti alla divaricazione tra fini dichiarati ( la missione sociale) e i fini reali (l’autodifesa degli apparati).
E’ severamente vietato agli utenti destinatari di diventare attori sociali proponenti, l’”oggetto” delle pratiche di tutela politico-amministrativa non può pretendere di entrare nella scena pubblica come “soggetto”.
In modo embrionale, implicito e carsico vediamo forse operare dinamiche sociali che vanno ad intaccare quello che è un solido paradigma d’ordine.
Riprendendo una indicazione dello storico del movimento operaio Edouard Dolléans ,sembra oggi ritornare l’esigenza “di precisare il conflitto fra le rivoluzioni di potenza e le rivoluzioni di capacità, secondo la forte espressione di Proudhon”.(7)
Da una parte la gestione della società delegata alle macchine politiche, alle tecnocrazie e allo Stato, dall’altra parte il mutamento sociale che cerca le sue risorse principali e prioritarie nell’incremento delle capacità morali e intellettuali dei cittadini e nell’iniziativa costruttiva e realizzatrice delle libere associazioni.
Se la sfida delle alternative sociali ha veramente questo respiro e questa rilevanza, è difficile però vederle rappresentate nell’attuale dibattito politico ed ideale.
Un fattore di rimozione e di blocco della discussione viene dall’interno dello stesso “terzo settore”.
In esso operano grandi società di capitale (non profit) che utilizzano personale dipendente per fornire servizi sociali appaltati all’esterno da enti pubblici: l’impresa sociale.
Dall’altra parte abbiamo una galassia di associazioni tra persone rivolte all’azione solidale di sostegno e di aiuto: il volontariato.
I primi operano per erogare servizi all’utenza sociale, i secondi sono soprattutto impegnati con i soggetti deboli titolari di diritti sociali elusi o negati.
I primi sono applicati ad agire sui modi, sugli indirizzi, sulle normative di elargizione dell’offerta di prestazioni e di servizi.
I secondi si sentono più impegnati a dare voce, a suscitare capacità di espressione e di influenza nella domanda sociale.
Sono ambiti che esprimono logiche diverse dell’azione sociale.
I vertici visibili e ascoltati del cosiddetto terzo settore esprimono una torsione unilaterale della rappresentanza, esercitano soprattutto una sorta di pressione “sindacale” dell’impresa sociale verso i pubblici poteri per sollecitare e captare l’esternalizzazione dei servizi sociali.
La vasta galassia delle buone pratiche di cittadinanza, dell’associazionismo volontario, della cittadinanza attiva non ha rappresentanza propria, visibilità e peso politico. Eppure è da questo lato che vengono gli apporti per un welfare arricchito, rinnovato e partecipato la cui costruzione coincide con una rivitalizzazione democratica della società civile.
La convergenza tra “imprenditori sociali”, apparati politici e burocrazie amministrative, applicati in operazioni di ingegneria sociale e ossessionati dai “costi” dell’offerta sociale, tende sempre più a far coincidere l’innovazione con il ridimensionamento del Welfare
L’oscuro oggetto del desiderio di tanta parte della classe dirigente italiana ed europea è il modello americano di “conservatorismo compassionevole” e di welfare residuale
Il prof. Stefano Zamagni è uno studioso cattolico che da anni dedica intelligenza e passione nella ricerca economica, sociale e storica dei fondamenti di quella che egli chiama una “economia civile” che sia in grado di sfuggire alla stretta delle ganasce del neo-liberismo e del neo-statalismo.
Egli non ha dubbi nel tracciare netti confini rispetto all’esperienza americana del “capitalismo caritatevole” dove “un mercato scatenato produce ricchezza e i “ricchi” fanno la “carità” ai poveri, “utilizzando” la società civile (che quindi viene deformata) e le sue organizzazioni (le charities e le Foundations).”(8)
Lascia un po’ perplessi l’intento di Zamagni a ricercare nell’ “umanesimo civile” della prima metà del Quattrocento fiorentino il riferimento culturale e sociale per il progetto di una “economia civile” del nostro tempo.
Personalmente ritengo che per affrontare l’insorgente questione sociale le forze politiche e culturali del nostro continente debbono fare i conti, nel bene e nel male, con la peculiarità di un sua esperienza non così lontana: la storia sociale di un’Europa percorsa da 150 anni di vicende del movimento operaio e socialista e da 100 anni di impegno del movimento del cristianesimo sociale.
E’ all’interno di questa lunga storia che si possono rintracciare contributi di pratiche e di idee che, con alterne fortune, hanno cercato di contenere le opposte derive del mercatismo individualista e dello statalismo collettivista.
Il filo rosso di questa tradizione, da ripensare e da riattivare, lo ritrovo nell’esperienza del mutualismo.
Parlando del mutualismo storico penso che non sia opportuno dilatarlo troppo, quasi fosse un sistema complessivo di socialismo mutualista, e neppure ridurlo alla mera esperienza delle “mutue”.
A mio avviso il mutualismo realizza una particolare articolazione di quel principio di solidarietà nel quale si concentra e si riassume il contributo morale e pratico del movimento operaio nella storia dell’Europa del XIX secolo.
La parola “solidarietà” è apparsa sulle testate dei giornali degli operai parigini durante la rivoluzione del 1848. Essa si è presentata accanto a quelle di libertà e di uguaglianza ed in sostituzione del termine fraternità.
Fratellanza significa sollecitudine morale all’oblazione dall’alto verso il basso tra diseguali in nome di una comune appartenenza: fratelli in quanto figli di dio, fratelli in quanto figli della patria. Era la parola della carità cristiana e della filantropia massonica.
La solidarietà operaia segna una rottura: esprime un sentimento morale e una disposizione pratica che unisce orizzontalmente gli eguali: uno per tutti, tutti per uno. E’ la presa di coscienza della necessità dell’agire cooperativo da parte di coloro che posseggono soltanto la forza del numero.
La solidarietà ha suscitato e animato la grande e ricchissima fioritura dell’associazionismo nell’Europa della seconda metà dell’800.
Le società di mutuo soccorso furono luogo privilegiato di solidarietà operaia. All’interno della cerchia “privata” dell’associazione il mio dovere di essere solidale con tutti comportava l’obbligo di tutti gli altri di essere solidali verso di me. All’interno di quell’ambito associativo circoscritto i lavoratori, di fronte alle sventure dell’esistenza, hanno cessato di rovinare nella condizione di bisognosi mendicanti per diventare soggetti portatori del diritto al sostegno solidale.
Ma ben più vasto era il ventaglio delle forme della solidarietà operaia.
Il sociologo Roberto Michels (9), nei primi anni del 900, esamina e riflette sulle forme in cui si articola la solidarietà tra i lavoratori. Egli ritiene di tracciare una distinzione importante tra le forme della “solidarietà negativa” che genera coesione contro qualcuno e quelle della “solidarietà positiva” che si alimenta nell’impegno cooperativo per risolvere in proprio, direttamente e dal basso, problemi e difficoltà insorgenti nella vita e nel lavoro.
La solidarietà negativa prevale nelle coalizioni di “combattimento” del movimento operaio: il sindacato in lotta contro il padrone ,il partito in lotta per il potere nello stato.
Il mutualismo invece rappresentava l’ampia area delle solidarietà positive che puntavano sulle “virtù proprie” del mondo del lavoro: le loro capacità di autogestione, l’esercizio dei loro saperi-taciti nel costruire società, nel fare tecnico e nell’agire economico. L’ area del mutualismo comprendeva le società del mutuo soccorso, le cooperative di produzione e di consumo, il credito cooperativo, le case del popolo, i circoli ricreativi, le società di istruzione professionale, le università popolari…
Nell’ esperienza concreta del movimento dei lavoratori esistevano relazioni reciproche e contaminazioni tra militanza sindacale, lotta politica e attivismo mutualistico.
Nel corso del ‘900 ( a partire dalla Prima guerra mondiale) avviene però un radicale mutamento di scenario nella configurazione delle pratiche, delle culture, delle logiche di raggruppamento all’interno della società del lavoro.
Lo sviluppo del capitalismo organizzato cui si contrappone la risposta di un sindacalismo centralizzato e istituzionalizzato, la militarizzazione della politica in una logica di scontro amico-nemico, la progressiva statizzazione della mutualità, tendono ad assolutizzare i momenti e le istituzioni della solidarietà negativa ( sindacati e partiti). Prevale una logica di organizzazione d’apparato, disciplinata e gerarchica, dettata dalla necessità di “combattimento”.
A questa svolta storica corrisponde il declino, il deperimento del mutualismo inteso come l’area della solidarietà positiva e del pluralismo associativo nel quale si esprimevano le autonome capacità dei cittadini nell’ affrontare, a partire da se stessi e in modo cooperativo, i problemi e le difficoltà della vita personale e sociale.
E’ forse arbitrario collegare le forme dell’operare e i modi di vivere e di vedere la società di quanti oggi sono impegnati nelle buone pratiche di cittadinanza con il patrimonio tutto nostro di quella solidarietà mutualistica che è stata parte tanto importante nella storia sociale del nostro continente?
La solidarietà classista degli operai è nata come solidarietà tra “affini” e “vicini”. Oggi, con l’affermazione della cultura dell’universalità dei diritti fondamentali, essa è evoluta verso una solidarietà civile anche tra i “diversi” e i “lontani”.
Il mutualismo, che è manifestazione organizzata ed attiva delle solidarietà, non rappresenta affatto “l’infanzia” anacronistica e superata del movimento operaio e democratico ma, come rivendica Nadia Urbinati, esso è sostanza della “maturità” democratica contemporanea: “fare insieme per libera scelta, associarsi per uno scopo comune, è quanto di più pubblico e volontario vi possa essere ed esprime la sintesi pratica tra l’eguaglianza come reciprocità… e la libertà come premessa della moralità e della vita politica” (10).
Quando il sistema politico delle oligarchie a base democratica è pericolosamente logorato, quando l’impresa “avida” ed “irresponsabile” tende a spezzare ogni rapporto tra norma etica, regola giuridica e mondo degli affari, il principio del mutualismo si propone come antidoto vitale ed attuale alle possibili derive della democrazia e alle sfrenate iniquità dell’economia.
Pino Ferraris
1) A. Montebugnoli. Le parole per dirlo. Una definizione argomentata di Terzo settore. Relazioni solidali. N.1 maggio-agosto 2005.
2) Redazione di Una città ( a cura di). Almanacco delle buone pratiche di cittadinanza. Fondazione Alfred Lewin, dicembre 2004.
3) V.Renard, Le syndicalisme à bases multiples, L’humanité,11 gennaio 1908
4) R. Sennett. La cultura del nuovo capitalismo, p.p. 136-137. Il Mulino 2006.
5) Alain Caillé et Jean-Louis Laville, Une seule solution, l’association ? Présentation, Revue du MAUSS, n.11, primo semestre 1998.
6)Pino Ferraris, I movimenti ieri ed oggi, Lo Straniero,N.58, aprile 2005.
7) Edouard Dolléans, Storia del movimento operaio, Vol.II. Roma 1948.
8) Stefano Zamagni, Per un’economia civile nonostante Hobbes e Mandeville, Oikonomia n.3, ottobre 2003.
9) Pino Ferraris, Roberto Michels: l’eclissi della “solidarietà spontanea e volontaria”, Solidarietà, Parolechiave n.2 1993
10) Nadia Urbinati, L’anima della democrazia, Una Città N. 129, maggio 20005.
pubblicato su “Almanacco delle buone pratiche di cittadinanza” Forlì, febbraio 2007
a cura della rivista “Una città”, www.unacitta.it